Il presidente del Brasile, Michel Temer, è sotto accusa per corruzione. La procura generale della Repubblica ha chiesto la sua incriminazione. Sarà la Camera dei deputati a decidere se sottoporre il presidente al giudizio della Corte Suprema. Per il via libera c’è bisogno dei due terzi dei voti. Il presidente, ultraconservatore, del partito in origine centrista Pmdb, è sospettato di aver ricevuto una tangente del valore 140 mila euro dal re della carne brasiliana, l’imprenditore Joesley Batista, in cambio dell’evasione delle tasse sull’export. Joesley è il proprietario della principale azienda mondiale per l’esportazione di carne, la Jbs. Temer rifiuta di dimettersi e si dice vittima di una macchinazione. «Niente mi distruggerà» è stato il suo commento alla notizia.
Abilissimo nel tessere alleanze, ha ormai perso appoggi tra i parlamentari. Alcune delle otto richieste d’impeachment contro di lui sono firmate anche da suoi ex alleati. La sua maggioranza già risicata – raccolta con vari patti tra destra, destra estrema e centro dopo l’impeachment di fine agosto della ex presidente Dilma Rousseff del Partido dos Trabalhadores di cui Temer era il temuto vice – si è sgretolata negli ultimi mesi.
In attesa del verdetto della Camera su Temer, il Brasile aspetta di capire quale sarà la sorte dell’ex presidente Lula da Silva, su cui a giorni dovrà pronunciarsi il giudice di primo grado Sergio Moro, il suo grande accusatore, che potrebbe anche decidere il suo arresto.
Scrive la «Folha de Sao Paulo» a proposito del processo in corso a Curitiba contro l’ex presidente Lula, accusato di corruzione e riciclaggio per l’acquisto a prezzo di favore di un appartamento di cui lui nega d’essere proprietario: «I soli indizi sono forse sufficienti per condannare?». Clamoroso che con l’aria che tira in Brasile qualcuno osi mettere in discussione la bontà del processo indiziario.
È interessante che nel bel mezzo della rivoluzione politica per via giudiziaria in corso in Brasile, a porre la domanda sia il quotidiano della borghesia paulista e della finanza.
Interessante perché la «Folha», il giornale più autorevole del Brasile, sostiene la voce dell’accusa nelle inchieste in corso su corruzione e finanziamento occulto ai partiti con una linea editoriale univoca e agguerrita. Lo fa da dodici anni. Da quando, nel 2005, due anni dopo l’inizio del primo governo Lula (il primo governo di sinistra nella storia del Brasile) iniziò la prima indagine sul mensalão, il sistema illegale di pagamento di un mensile a deputati con cui il Partido dos Trabalhadores (Pt) fu accusato di comprarsi la maggioranza parlamentare. Quel processo decapitò l’intero Pt, sfiorò molte volte Lula senza mai riuscire a incriminarlo. Il maxi processo del mensalão fu in molti suoi rivoli un processo indiziario, si fondò su una mole di dichiarazioni d’indagati che accusavano terze persone. Eppure la «Folha» ha finora sostenuto con grande forza i giudici del Tribunale supremo nella loro frase-bandiera: «Le prove indiziarie sono adatte a giustificare un giudizio di condanna». La povera giudice Carmen Lucia, l’unica voce dissonante nel Tribunale supremo, invano è andata ripetendo: «La condanna esige un giudizio certo, le prove indiziarie non sono sufficienti a formare una convinzione di colpa». Nessuno le ha mai offerto una tribuna illustre per spiegare i suoi argomenti.
Oggi invece, con l’era lulista ormai sepolta e buona parte della dirigenza del Pt in galera, con l’economia esangue, con i contratti dell’impresa statale del petrolio Petrobras congelati dalle inchieste in corso e con un governo paralizzato, la «Folha de Sao Paulo» sforna reportage zeppi di dubbi riguardo ai processi indiziari e riporta posizioni come questa dell’avvocato Carlos Eduardo Scheid: «Le parole dei collaboratori di giustizia sommate ad alcuni indizi generano il rischio abbastanza grande di condanne ingiuste».
Cosa è successo? È successo che sta per uscire la sentenza del processo più seguito da stampa e tv dell’intera storia brasiliana, quello in cui il giudice Sergio Moro (che pur essendo giudice di prima istanza ha mediaticamente rivestito il ruolo di voce grossa dell’accusa) giudicherà Lula per il sospetto di essere proprietario di un appartamento ricevuto come tangente.
I pm hanno detto in Aula: «O si concede elasticità all’ammissione di prove d’accusa e il debito valore alla prova indiziaria, o questi crimini di alta lesività sociale non saranno mai puniti e la società ne soffrirà le conseguenze». La difesa dell’ex presidente ha replicato: «Questo discorso è tanto moderno quanto lo sono la Santa Inquisizione, le monarchie assolute e le teorie fasciste». L’accusa ha chiesto che, se condannato, Lula vada in galera già dopo la sentenza di primo grado. In caso di condanna naufragherebbe la sua candidatura alle presidenziali del 2018. E questo preoccupa paradossalmente la «Folha» che di Lula è stata per lungo tempo acerrima nemica.
Se si votasse domani l’ex presidente sarebbe il favorito al primo turno con il 30%. Non si voterà domani perché la grande crisi che sta scuotendo il Brasile potrebbe risolversi con elezioni anticipate soltanto dopo una modifica alla Costituzione che richiede una maggioranza qualificata di cui il Pt, in minoranza al Congresso, non dispone.
Ma con il presidente in carica a rischio di destituzione, il Psdb (il partito storico della destra liberale, il partito fondato dall’eterno rivale di Lula, l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso) polverizzato a sua volta da inchieste di corruzione come il resto dell’arco parlamentare brasiliano, Lula appare a molti come l’unico scoglio al quale far aggrappare il paese prima che affondi.
Temer è stato ormai scaricato dalla borghesia paulista. Gli industriali e la finanza paulista l’avevano abbandonato alla sua sorte già prima che il Tribunale elettorale votasse su di lui a inizio giugno, salvandolo per 4 voti a 3 dalla condanna per uso di fondi illegali nella campagna per le ultime presidenziali, alle quali correva in coppia con la candidata presidente Dilma Rosseff. In caso di condanna il presidente sarebbe stato costretto a dimissioni immediate senza passare per l’impeachment perché i reati contestati risalivano alla campagna elettorale, quindi non sarebbe entrato in gioco il fattore immunità. Da quando la finanza paulista l’ha mollato, la sorte di Temer pare segnata, la sua agonia politica solo prolungata. L’idea dei circoli finanziari paulisti è lasciar cacciare lui e mantenere intatta la linea del suo gabinetto economico. Scriveva giorni fa, sempre sulla «Folha», Vinicius Torres Freire: «Quasi nessuno menziona il nome di Temer, come se fosse la peste. Ma è in corso un tentativo di organizzare un fronte business as usual. Non lo si lascia cadere solo perché ancora non si trova una soluzione politico-giudiziaria per: cacciarlo, problema sempre più complicato; eliminare i recalcitranti dal Congresso, convincerli a votare un programma di restaurazione liberale, missione quasi impossibile; garantire che l’équipe economica rimanga la stessa».
L’anno scorso l’alta borghesia paulista l’ha sostenuto come regista dell’impeachment di Dilma Rousseff, di cui era vice. Poi l’ha considerato utile per far varare un pacchetto di impopolarissime leggi per la ristrutturazione del mercato del lavoro e del sistema previdenziale. Adesso però, anche se quelle leggi sono ancora in attesa di essere approvate dal Senato, Temer è diventato un fattore d’instabilità eccessiva.
Non è più in grado di assicurare una maggioranza parlamentare. Tutto il Paese ha ascoltato la voce di Temer in un file audio, registrato segretamente da Joesley Batista ricevuto di nascosto nella residenza presidenziale, raccomandare «quello lì me lo devi continuare a mantenere», frase riferita apparentemente all’ex presidente della Camera, Eduardo Cunha, compare politico di Temer, pedina fondamentale nell’impeachment di Dilma, attualmente detenuto perché condannato in via definitiva per una lunga serie di reati penali.
Se Lula venisse condannato nel processo indiziario di Curitiba, non ci sarebbe più nessuno in grado di trattare autorevolmente insieme all’ex presidente Fernando Henrique Cardoso un’uscita politica alla crisi. Per esempio un accordo trasversale su una persona da far eleggere dai parlamentari tramite elezioni indirette, previste dalla Costituzione.
Con la dirigenza del Pt finita in galera al grido di «giustizia giustizia», il Psdb terremotato dalle inchieste e il paese in subbuglio, Lula è l’unico in grado di garantire l’accordo parlamentare su un presidente con l’incarico di traghettare il Brasile fino alle elezioni del 2018. L’unico a dare garanzie di poter gestire la transizione per prepararsi poi a riconquistare il governo nel 2018. Sempre che non l’arrestino prima.