Sull’Asia bombe diplomatiche Usa

Usa-Pakistan – La visita di Khan negli Stati Uniti e le dichiarazioni del presidente americano su Afghanistan e Kashmir infiammano il subcontinente indiano
/ 29.07.2019
di Francesca Marino

«In Afghanistan noi non stiamo combattendo una guerra, siamo diventati dei poliziotti. Se volessi davvero combattere una guerra in Afghanistan potrei vincere in una settimana. Ho un piano per l’Afghanistan che, se volessi vincere la guerra, cancellerebbe il Paese dalla faccia della terra. Sarebbe spazzato via letteralmente in dieci giorni, ma ucciderei dieci milioni di persone e io non voglio seguire questa strada». E ancora: «Il Pakistan può aiutarci a uscire da questo ginepraio». Così un Donald Trump in forma particolarmente buona (se si fosse trattato di un programma satirico) rispondeva a una domanda sul conflitto afghano.

Al suo fianco Imran Khan, il discusso premier pakistano che, bene istruito dall’esercito, ha abilmente lusingato il gigantesco ego del presidente americano facendogli probabilmente dire molto più di quello che avrebbe potuto o dovuto. La minaccia, nemmeno tanto velata, di usare una bomba atomica sull’Afghanistan ha fatto saltare dalla sedia il presidente Ghani e tutto il governo di Kabul: che il giorno dopo hanno chiesto spiegazioni ufficiali alla Casa Bianca.

E non sono stati i soli. Perché subito dopo aver ventilato la distruzione di Kabul e dintorni, l’ineffabile Trump ha sganciato un’altra bomba diplomatica. Sollecitato da una domanda di un giornalista pakistano, e da Imran Khan che lo ha definito «l’uomo più potente del mondo», il solo in grado di risolvere un conflitto che gli garantirebbe «preghiere e benedizioni» di milioni di persone, il presidente americano è passato a esternare sulla cosiddetta «questione del Kashmir». Testualmente: «Kashmir è una parola bellissima. Dicono che sia un posto bellissimo ma adesso ci sono bombe dappertutto. È una problema che si trascina da moltissimi anni, ditemi se serve aiuto per risolverlo.

Due settimane fa ero con il primo ministro Modi, e lui mi ha chiesto appunto di mediare sul problema del Kashmir». In India, ed era tarda sera, si è scatenato l’inferno. Per New Delhi, difatti, non esiste una «questione del Kashmir»: la regione è parte integrante dell’India, non è «contesa» tra due paesi ma soltanto vittima di un terrorismo che proviene da oltre confine. Per questi motivi l’India ha sempre rifiutato e continua a rifiutare qualunque tipo di mediazione internazionale. 

Affermare che Modi abbia domandato a Trump di mediare sulla questione, significa far detonare in India una vera e propria bomba. Il Ministero degli affari esteri ha emesso immediatamente un comunicato che smentisce Trump ed è andato a reiterare il concetto in Parlamento, ma Modi si trova adesso nella difficile posizione di dover dare di persona del bugiardo al presidente degli Stati Uniti, considerato fino a cinque minuti prima un alleato. La chiave di tutto questo disastro diplomatico, realizzato rovesciando ancora una volta dichiarazioni e istruzioni dello staff presidenziale e della diplomazia, risiede proprio in questa idea: «Il Pakistan può aiutarci a uscire da questo ginepraio». Donald Trump deve portare a casa un risultato che gli spiani la strada per la rielezione: e l’Afghanistan sembra il meno improbabile. Si tratterebbe ovviamente non di una vittoria ma di una resa più o meno onorevole.

A dettare le condizioni ai cosiddetti colloqui di pace tra Usa e talebani sono difatti questi ultimi, e non certo gli americani. E per ribadire il concetto i talebani, mentre si svolgono i colloqui, continuano a uccidere civili e militari. I talebani, e ormai lo sanno anche bambini e animali domestici, sono controllati dal Pakistan: che li vuole vedere reinsediati a Kabul a capo o parte di un governo che possa essere agevolmente manovrato dai militari pakistani e che, soprattutto, escluda completamente l’India dalla regione. A organizzare la visita di Imran Khan in America sono stati, si dice, il principe saudita Mohammad bin Salman e Jared Kushner, il genero di Trump. Imran Khan, manovrato abilmente dal generale Bajwa che lo ha accompagnato a Washington assieme ad altri membri dell’esercito, sa di avere il coltello dalla parte del manico nella questione afghana e lo usa. Per ridare lustro all’immagine di un Paese ormai diplomaticamente isolato da un paio d’anni, anzitutto. 

Poi, nonostante Imran Khan abbia dichiarato che desidera: «una relazione paritaria e di amicizia» con gli Stati Uniti perché: «odio mendicare», il Pakistan ha disperatamente bisogno di fondi. L’economia è allo sfascio, e Imran è in realtà andato nell’ultimo anno a chiedere prestiti alla Cina, all’Arabia Saudita e agli Emirati arabi. Ottenere di nuovo i fondi americani, tagliati da Trump due anni fa, sarebbe una boccata d’ossigeno. Alla giornata non è mancata anche la comica finale: Imran Khan, in un’intervista televisiva, ha difatti dichiarato che è stata l’Isi a rivelare alla Cia la residenza di Osama bin Laden. Cercando di negoziare il rilascio di Shakil Afridi, in carcere con l’accusa di aver fornito alla Cia le informazioni di cui sopra, in cambio di Aafia Siddiqi, arrestata dagli americani per terrorismo. Tanto per non smentire la propensione di Islamabad ad allevare e nutrire terroristi e jihadi da usare poi come arma di ricatto verso il resto del mondo.