La settimana scorsa l’Ue ha concordato nuove sanzioni – le quinte – contro la Bielorussia, misure che prendono di mira le istituzioni e gli individui ritenuti coinvolti nei processi che hanno facilitato l’arrivo di migliaia di persone ammassate da settimane lungo il confine con la Polonia, nonostante le temperature rigide dell’Europa orientale (vedi foto). La decisione di applicare una nuova lista di sanzioni al regime di Alexander Lukashenko è la risposta dell’Europa a quello che è stato definito dai più alti vertici dell’Ue come un «attacco ibrido» sulla pelle dei migranti, cioè un modo di minacciare la stabilità europea aiutando persone provenienti dal Medio Oriente a raggiungere la Polonia e dunque l’Europa volando su Minsk. Ecco perché le sanzioni saranno dirette a «persone, compagnie aeree, agenzie di viaggio» e in generale a tutti coloro che risultino coinvolti nella spinta illegale verso i confini europei, come sottolineato dal capo della politica estera Ue Joseph Borrell, che ha chiosato sulla decisione dei 27 ministri degli Esteri affermando che l’Ue è determinata «a resistere alla strumentalizzazione dei migranti per scopi politici».
La storia della strumentalizzazione delle vite dei migranti parte da lontano ed è una lezione che non è stata imparata. Guardiamo al recente passato, cioè al 2015, anno della grande migrazione attraverso quella che allora fu battezzata la rotta balcanica e che esasperò, in Europa, la politicizzazione del fenomeno migratorio. Nel 2015 la rotta del Mediterraneo orientale tra la Turchia e la Grecia registrò il numero record di quasi 900 mila persone in movimento verso l’Ue. Nella maggior parte dei casi si trattava di rifugiati siriani in fuga dalla guerra, poi afgani e somali. Arrivati in Grecia questi proseguivano il loro viaggio verso la Macedonia e i Balcani occidentali.
L’Europa, terrorizzata, rispose a quell’emergenza tornando a costruire muri, bloccando le frontiere e chiedendosi come fare ad arginare l’arrivo di tanti disperati. La soluzione allora arrivò dalla stessa Turchia che si propose per trattenere e rimpatriare i migranti che cercavano di entrare in Europa in cambio di sei miliardi di euro. L’Europa acconsentì. Il risultato fu un calo netto e radicale del numero di arrivi irregolari nel Vecchio continente, seguito dalla costruzione tre hotspot sulle isole greche di Samos, Ios e Lesbos, nel Mar Egeo, dove i migranti aspettano che venga valutata la loro richiesta di assistenza e protezione umanitaria. Se la domanda viene rifiutata, vengono riportati in Turchia.
In conseguenza dell’attuazione dell’accordo, nel 2017 l’arrivo delle persone in Europa attraverso il Mediterraneo orientale, lungo quindi la rotta balcanica, subì un calo del 77% secondo i dati dell’Onu. Il patto Europa-Turchia funzionava. Ma ebbe costi altissimi: uno economico, 6 miliardi di euro versati dall’Europa alla Turchia, uno umanitario, migliaia di persone bloccate per mesi negli hotspot in condizioni disperate. Infine uno diplomatico: l’accordo con la Turchia, infatti, ha rappresentato la pietra angolare di tutti gli accordi successivi con Paesi a cui l’Europa ha subappaltato la protezione dei propri confini. Denaro a Governi autoritari in cambio dell’esternalizzazione delle frontiere. Paesi governati da regimi poco democratici – Turchia e Libia, per citare gli esempi più recenti – che finiscono per usare i migranti come il fronte di una nuova guerra che si combatte sui corpi di chi scappa da conflitti e miseria.
Lo stesso accade oggi al confine tra Bielorussia e Polonia. E anche qui la storia parte da più lontano, dalle elezioni presidenziali del 2020 in Bielorussia, di cui Lukashenko si è intestato la vittoria nonostante le denunce di brogli. Dopo le proteste degli elettori il regime ha risposto brutalmente, con una drastica repressione del dissenso e un’ondata di arresti che non cessa di spaventare. La politica repressiva di Lukashenko ha costretto alla fuga una moltitudine di attivisti e l’Europa ha con fermezza rivendicato il rispetto dei diritti civili. Lukashenko ha risposto provocando: prima dirottando un aereo che trasportava cittadini europei, ora usando la migrazione come arma per esercitare pressioni diplomatiche. Sono aumentati i voli dal Medio Oriente alla Bielorussia con l’ausilio di compagnie turistiche che preparavano pacchetti speciali diretti al confine polacco e lituano. Lukashenko ha «armato» un fenomeno drammatico, quello della fuga dai conflitti, progettando un percorso migratorio finora inedito, garantendo a molti l’arrivo a Minsk via aereo senza necessità di un visto e agevolando il loro cammino verso il confine polacco. Lukashenko vuole provocare l’Europa sul suo nervo più scoperto: i diritti umani, i diritti civili, la tradizione su cui l’Europa si fonda.
Una guerra esterna e interna, perché la mossa bielorussa rappresenta anche una frattura nella frattura, quella dei difficili rapporti tra la Polonia – Paese verso cui mirano i migranti – e il resto degli Stati membri. Lukashenko vuole il riconoscimento dei Governi del Vecchio continente, vuole che i Governi europei considerino la sua elezione legittima, e non si fa scrupoli nell’usare le vite migranti e nell’approfittare di una debolezza tutta interna all’Europa che precede questa crisi. Sullo sfondo, infatti, c’è l’intensificarsi della battaglia di Varsavia con le istituzioni dell’Ue sullo stato di diritto. La Polonia fu uno dei pochi Paesi europei a rifiutarsi di accogliere i migranti durante l’emergenza del 2015 e da allora ha sempre rifiutato le quote di ricollocamenti di rifugiati che le sono state assegnate. Oggi, in piena crisi sul confine bielorusso, Varsavia, che ha stanziato i suoi soldati al confine, per uscire dall’emergenza dovrebbe chiedere aiuto a Frontex, l’agenzia di frontiera Ue, ma farlo significherebbe indebolire le posizioni contro l’immigrazione del Governo di Varsavia. Dunque, un cul de sac tutto interno all’Europa che Lukashenko è riuscito mettere in luce.
Mentre si combatte la guerra diplomatica sulla pelle dei più deboli, i flussi migratori sono già cambiati: da agosto gli arrivi nella sola Germania attraverso la Bielorussia sono più che quadruplicati. L’Europa ora è in un vicolo cieco dal quale deve uscire con saggezza, dimostrando che non può tollerare l’uso strumentale delle vite dei vulnerabili, e che non delegherà a Lukashenko il controllo delle frontiere, come ha fatto in passato (e continua a fare) con Turchia e Libia. L’Europa non può e non deve cedere ai ricatti, né quelli esterni né quelli interni, ne va dei valori europei e del futuro delle vite in cammino.
Sulla pelle dei più deboli
La vecchia storia della strumentalizzazione delle vite dei migranti
/ 22.11.2021
di Francesca Mannocchi
di Francesca Mannocchi