Sudan: una minaccia per la stabilità africana

Il Paese è allo sbando ma resta il baricentro geopolitico di un quarto del Continente, già di per sé molto destabilizzato
/ 01.05.2023
di Pietro Veronese

Centinaia di morti, migliaia di fuggiaschi, evacuazione in massa dei cittadini stranieri, ambasciate chiuse, cessate il fuoco già due volte violati, la vita minacciata da combattimenti senza esclusione di colpi. Il conflitto esploso in Sudan lo scorso 15 aprile ha assunto immediatamente i tratti di una guerra vera e propria, con l’impiego di tutto l’arsenale, compresi missili e bombardamenti aerei. Khartoum, una delle maggiori metropoli africane, è un campo di battaglia. I suoi abitanti, milioni, sono rimasti senza elettricità né acqua, né la possibilità di rifornirsi di cibo.

Il nocciolo della guerra è una lotta di potere fra due generali, che dispongono dell’intera forza militare dello Stato ma si comportano come capibanda, contendendosi traffici e zone d’influenza. Tuttavia, la portata di questo scontro feroce, al quale la società civile sudanese – 45 milioni di persone – sta pagando un prezzo altissimo, non si esaurisce qui. Come ha detto il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres, «è stata accesa una miccia che potrebbe provocare esplosioni al di là delle frontiere, causando enormi sofferenze per anni e facendo arretrare di decenni lo sviluppo». Parole gravi, di certo non proferite alla leggera. Le ultime notizie, mentre scriviamo, parlano della disponibilità di una delle due parti al prolungamento del cessate il fuoco e di un’iniziativa regionale di Sud Sudan, Kenya e Gibuti per l’avvio di un dialogo tra i contendenti. Dobbiamo immaginare in entrambi i campi ore di costante calcolo costi-benefici, nel quale vengono soppesati i pro e i contro di una continuazione delle ostilità e la sorte della gente normale non entra mai in linea di conto.

Fino al 2011, il Sudan era il Paese più ampio dell’Africa; quell’anno il Sud si staccò, diventando e restando ancor oggi, con l’indipendenza, lo Stato più giovane del mondo. La mutilazione, sia di territorio che di risorse (petrolio), fu causa di una grande perdita di prestigio per il regime di Khartoum. Chi ha la memoria sufficientemente lunga ricorderà che tra gli osservatori e gli specialisti alcuni profetizzarono la possibile disintegrazione di quel che restava. Il Sudan si dedicò in effetti alle sue contese interne, dal Darfur a ovest ai monti Nuba del Kordofan a sud e al territorio del Nilo Azzurro a est. Qualche anno dopo, nel 2019, il potere del dittatore al Bashir crollò, dando luogo a un lungo braccio di ferro tra militari e civili. Statisti e strateghi del Continente furono tentati di considerare adesso quel Paese, un tempo grande, un’entità trascurabile.

Ma non era così. Il Sudan occupa pur sempre il terzo posto dell’Africa per estensione. Come la Repubblica democratica del Congo al centro del Continente, o il Mali nella sua parte occidentale, è una vastità che non può essere ignorata. Confina con sette Paesi, ciascuno dei quali sta vivendo una sua crisi di maggiore o minore entità. Segnaliamo la Libia, il Ciad, la Repubblica Centrafricana, il Sud Sudan, l’Etiopia, l’Eritrea (cui s’aggiunge l’Egitto). L’ottava frontiera è marittima: la costa del Mar Rosso, lungo la quale i generali sudanesi hanno segnalato di esser disposti a concedere la creazione di una base navale da tempo richiesta dalla Russia. Il Sudan appare così il baricentro geopolitico di un enorme bacino – grosso modo un quarto dell’Africa – già di per sé altamente destabilizzato. Se anch’esso vacilla, la catastrofe è prossima.

A queste considerazioni facilmente ispirate dalla carta geografica, si sovrappongono le iniziative di uomini e di Stati che creano una rete di interessi, pressioni, legami internazionali intorno al Sudan. Una miriade di contatti e canali attraverso i quali il conflitto che al momento attanaglia il Paese può filtrare al di là dei confini e contaminare l’intera Africa nord-orientale, come teme il segretario generale Guterres. Rispetto alle contrapposizioni e alle clientele regionali della Guerra fredda, quando l’Africa (come il resto del mondo) era strettamente infeudata all’uno o all’altro campo, oggi la situazione è estremamente più confusa. Il dualismo ideologico rimane, come dimostra la guerra in Ucraina. Ma i protagonisti locali non hanno più alcun interesse nella gestione dello Stato, nei tempi lunghi della diplomazia, nei rituali delle relazioni internazionali o in una rigida scelta di campo. Sono dei signori della guerra che hanno come unica mira il potere e l’arricchimento personale e le cui alleanze sono tanto fluide quanto rapace è la loro avidità.

A cavallo degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, il Sudan fu per qualche tempo un posto sicuro per il terrorismo internazionale, una specie di Afghanistan africano. Ma quell’epoca è ormai lontana e oggi esso viene visto viceversa come un baluardo contro l’estremismo islamico che serpeggia attraverso l’Africa occidentale. Questo spiega i legami del potere attuale con i Paesi capofila del mondo arabo-islamico cosiddetto moderato, filo-occidentale: gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita. Un sostegno fatto soprattutto di denaro. Tuttavia anche il campo che mantiene eccellenti rapporti con la Russia non è meno ostile alla minaccia fondamentalista e jihadista. Ecco dunque la presenza in Sudan del Gruppo Wagner, il potente esercito privato russo impegnato nella guerra in Ucraina e, in Africa, in Paesi vittime del terrorismo jihadista come il Mali o la Repubblica Centrafricana. Ai famigerati mercenari del Gruppo Wagner è legato uno dei due contendenti sudanesi, il capo delle Forze di sostegno rapido, o RSF, Mohamed Hamdan Dagalo. Anche le RSF sono, in origine, un esercito privato, anche se poi sono diventate parte dell’apparato militare sudanese. Come il Gruppo Wagner, Dagalo (spesso chiamato con il nomignolo di Hemetti) ha inviato i suoi uomini a combattere all’estero in cambio di denaro.

In particolare in Yemen, sull’altra sponda del Mar Rosso, al fianco dell’Arabia Saudita contro gli insorti sciiti Houthi. Ma anche in Libia, in appoggio al signore della guerra della Cirenaica, Khalifa Haftar. Sono soprattutto fonti britanniche a sottolineare l’importanza del legame tra Hemetti e Haftar. Se il generale sudanese condivide con il Gruppo Wagner interessi nello sfruttamento dei giacimenti auriferi, con il libico controlla le rotte dei traffici e del contrabbando attraverso il Sahara: armi, droga, migranti. E soprattutto carburante, che Haftar gli invia con un flusso costante di camion cisterna. Questa alleanza è benedetta dalla Russia, la quale si è schierata con Haftar nella guerra civile libica. Tuttavia, il padrone della Cirenaica ha ottimi rapporti anche con l’Egitto, il quale invece nel conflitto del Sudan sostiene l’altro generale, il capo delle Forze armate Abdel Fattah al Burhan. Più ci si addentra nelle retrovie della guerra che è scoppiata in Sudan, più ci si smarrisce in un reticolo di rapporti internazionali pericolosi e fluidi, che promettono soltanto maggiore instabilità.