Narendra Modi aveva parlato chiaro fin dal G20 di Roma e le sue parole pesano come pietre sulla Cop26, la conferenza di Glasgow sui cambiamenti climatici: noi, aveva detto, non prenderemo impegni che possano frenare la ripresa economica. Poi il primo ministro indiano ha precisato il punto: l’accordo di Parigi? L’impegno a contenere l’aumento della temperatura globale nel limite di un punto e mezzo percentuale rispetto ai valori preindustriali? Certo che l’India ci sta, ma dateci tempo fino al 2070! In altre parole: continueremo per un altro mezzo secolo ad alimentare la nostra economia con il carbone, sia pure in misura decrescente.
Narendra Modi esprime un’opinione assai diffusa nel vasto mondo in via di sviluppo: quando si parla di valori preindustriali ci si riferisce agli anni che precedettero la grande rivoluzione produttiva dell’Occidente. Ma noi, si dice in quei Paesi, siamo tuttora in una fase preindustriale, perché mai dovremmo sacrificare la crescita della nostra economia sulla base di una stima che mette a nudo responsabilità non nostre? Voi occidentali ci avete avvelenati per più di due secoli, e ora ci chiedete di non ripetere il «vostro» errore!
Fatto sta che molti Paesi contrappongono agli auspici di Glasgow foreste di ciminiere che spediscono nell’atmosfera sostanze capaci di perpetuare il surriscaldamento di questo povero pianeta. Mentre l’Unione europea assicura che arriverà alle emissioni zero nel 2050 (saremo i primi!, annuncia Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea), in Asia si stanno costruendo o progettando duecento nuove centrali a carbone. Fra tutti i modi di produrre energia questo è il più gravido di effetti deleteri sulla salute del mondo. In India per far posto agli insediamenti industriali sono scomparse migliaia di chilometri quadrati di boschi di mangrovie e palme. Per non parlare della foresta amazzonica in Brasile, il polmone della Terra bersaglio di una devastante aggressione speculativa. Intanto i ghiacci continuano a sciogliersi e il livello dei mari a salire, mentre le acque sempre più acide compromettono la vita animale e vegetale sconvolgendo la catena alimentare.
Nella città scozzese che ospita la Cop26 i rappresentanti dei piccoli Stati insulari lanciano un SOS che dà il senso della loro disperazione: il mare non ci è più amico, le coste stanno arretrando di fronte all’oceano che incalza. Se si applica la lenta cronologia d’intervento prospettata da Modi, e resa assai probabile dalla reticenza di molti altri governi, intere isole rischiano di scomparire fra le onde. E così vasti tratti costieri in tutti i continenti, e le città sul mare. Non basteranno certo sbarramenti mobili come il sistema Moses a salvare Venezia e la sua laguna...
Nell’argomentazione di chi ritiene a pieno diritto di poter procrastinare le misure contro l’effetto serra si annida un paradosso: chi pronuncia quelle parole ha insieme ragione e torto. Ha ragione, perché effettivamente è stato l’impetuoso sviluppo delle economie occidentali a provocare la crisi che oggi ci angoscia. Ha torto, perché se a quelle parole seguiranno i fatti la crisi diventerà irreversibile e tutti quanti, sviluppati ed emergenti, ricchi e poveri, ne pagheremo le conseguenze. E così l’esercizio di un diritto sovrano si trasformerà in una condanna globale. La conferenza di Glasgow procede con parziali successi, come il freno alla deforestazione o l’intesa di massima sul metano o infine il vitale assenso della grande finanza alle emissioni zero. Ma ci sono perduranti difficoltà, in primo luogo le resistenze di Paesi come la Cina e la Russia e l’insistenza dei più disagiati sulla necessità che il mondo sviluppato paghi per le ferite inferte all’ambiente. Sullo sfondo risuona il grido d’allarme di quell’ecologismo militante che ha trovato in Greta Thunberg la sua personificazione.
La giovanissima paladina dell’ambiente lamenta di non essere stata invitata alla Cop26, eppure lei stessa, qualche mese fa, aveva dichiarato che non intendeva parteciparvi, visto che prevedibilmente sarebbe stata una rassegna di promesse ipocrite e disinteressate al destino del pianeta, il solito bla bla privo di contenuti.
Facendo a Glasgow gli onori di casa il primo ministro britannico Boris Johnson, nel presentare la conferenza come ultima spiaggia («siamo a pochi minuti dalla mezzanotte, bisogna fermare l’orologio dell’Apocalisse...») ha ripreso letteralmente quelle espressioni deplorando l’inconcludenza delle vane chiacchiere, delle promesse destinate a non essere mantenute. Forse lo avvicina al mondo di Greta l’indole fanciullesca che sembra trasparire dal suo aspetto, in vivace contrasto con il ben noto fiuto politico. Fatto sta che Johnson ha lanciato un segnale verso l’ambientalismo giovanile, facendo propria la protesta delle nuove generazioni che non vogliono ereditare una Terra morente. Ma lo ha fatto maledettamente tardi, dopo che la scienza ha parlato ripetutamente di una situazione ormai a rischio di precipitare verso il collasso del pianeta.
Fa parte del bla bla denunciato da Greta e da Johnson la reiterata affermazione che nessun singolo Stato può venire a capo di un simile problema, soltanto unita la comunità internazionale potrà affrontarlo e risolverlo. È un argomento talmente ovvio da rasentare la banalità. Certo che ci vorrebbe l’unità, visto che i fumi venefici non conoscono frontiere, ma la storia della diplomazia ambientale che dura ormai da una trentina d’anni, da quel 1992 che vide aprirsi piena di incoraggianti speranze la Conferenza di Rio de Janeiro, dimostra che procedere insieme è semplicemente impossibile. Alla frattura storica fra i Paesi che si sono sviluppati inquinando la Terra e quelli che vogliono svilupparsi a costo di peggiorare il bilancio ambientale si aggiungono il vezzo di usare questo tema come elemento di rivalità fra le potenze e gli interessi di chi, producendo combustibili fossili, non intende rinunciare a un’attività così redditizia.
Come insegna una elementare regola diplomatica, quando non c’è pieno accordo bisogna ripiegare sulla linea del compromesso. È quello che si sta cercando di fare a Glasgow, ma non è ricorrendo al compromesso che si ferma l’orologio dell’Apocalisse evocato dal primo ministro Johnson. Anche perché il declino dell’emergenza pandemica, sia pure lento, passibile di ricadute e caratterizzato da molti squilibri che penalizzano una volta ancora i Paesi sottosviluppati, ha favorito una ripresa globale dell’economia. Questo rilancio ha determinato un improvviso aumento dei consumi energetici, e un altrettanto improvviso rincaro dei combustibili, che almeno ci si augura possa indurre a investire di più nelle energie rinnovabili. In attesa che questo accada, mentre il clima impazzito devasta con cicloni tropicali aree tradizionalmente temperate, e gli abitanti degli Stati insulari dei Caraibi e del Pacifico spiano ansiosamente le maree sempre più alte, i produttori di carbone e petrolio fanno affari d’oro. E le emissioni zero? Nonostante i cauti progressi di Glasgow, a livello mondiale rischiano di rimanere un miraggio.