Stili di vita: è rivoluzione

Il mondo che verrà, 5. parte - Come le nuove tecnologie trasformano il paesaggio urbano: da Amazon che fa fallire gli shopping mall a Uber che sconvolge la civiltà dell’automobile. Ma pochi se ne accorgono (in Europa)
/ 14.08.2017
di Federico Rampini

Le nuove tecnologie trasformano il paesaggio urbano. Le mappe geografiche della nostra vita quotidiana vengono ridisegnate dai Padroni della Rete. Non tutti se ne accorgono così velocemente, perché il cambiamento è diseguale. In America è già in corso. Dalla Quinta Strada di Manhattan fino alla provincia profonda del Minnesota, il paesaggio degli Stati Uniti è sconvolto da una rivoluzione silenziosa. Un’ecatombe di negozi, grandi magazzini, centri commerciali, decimati dall’avanzata inesorabile del commercio online. La crisi è profonda e non ha solo una dimensione economica: investe un business che è anche un simbolo dell’American Way of Life, uno stile di vita, perfino un luogo di aggregazione sociale. Dai tempi del film retrò American Graffiti un rito iniziatico dell’adolescente americano era l’uso dell’automobile per andare a incontrare i suoi coetanei nei piccoli centri commerciali di provincia, le prime concentrazioni dove si univano supermercati, fast-food, cinema all’aperto. Negli anni Cinquanta nacquero gli shopping mall, cattedrali nel deserto dell’America profonda, che attorno al consumismo costruivano occasioni d’incontro, un modo per riempire il tempo libero, una caricatura ipermoderna delle piazze medievali del Vecchio continente. Nel 1962 Sam Walton cominciò l’avventura di Walmart, gli ipermercati che a loro volta hanno incarnato per decenni un American Dream fatto di carrelli della spesa extra-large e strapieni, Suv caricati a buon mercato, grazie allo «sconto cinese» (prodotti alla portata di tutte le tasche perché made in China).

>Ora tutto questo sta tramontando a una velocità impressionante. Fotografi e artisti amanti del macabro percorrono l’America in cerca di shopping mall in bancarotta, le nuove ghost-town del nostro tempo, città fantasma, colossi abbandonati per mancanza di clienti. Relitti giganteschi sui quali soffia il vento della morte. La middle class di «Suburbia», come vengono definiti i quartieri residenziali delle periferie, con le loro villette monofamiliari, i giardini e il garage, sta perdendo il gusto di quelle spedizioni familiari che nel weekend avevano una destinazione favorita, lo scintillante shopping mall dove ciascuno ne trovava per i suoi gusti. Ora nella villetta mono-familiare ciascuno se ne sta chiuso in camera sua, a dialogare sui social media, o a ordinare da Amazon sul proprio tablet. Un camioncino dell’Ups fa tappa davanti all’uscio di casa per lasciare una pila di pacchi delle consegne a domicilio. E gli shopping mall, deserti, falliscono uno dopo l’altro. Non solo loro. Tutta la grande distribuzione, dalle boutique di lusso ai supermercati ai grandi magazzini, vive la stessa angosciante decadenza proprio nel Paese che l’aveva inventata. È anche il paesaggio dei centri cittadini che rischia di essere irriconoscibile entro breve: se i consumatori rimangono a casa per fare la spesa, chi andrà ancora in giro a guardare le vetrine? Si salvano ancora quei magneti del turismo globale che possono compensare la scomparsa del consumatore locale con le frotte di cinesi e russi, italiani e francesi: per adesso questo sta proteggendo la vocazione di luoghi come la Quinta Strada e Soho a Manhattan, o Beverly Hills a Los Angeles. Che però assomigliano sempre di più a un duty free dell’aeroporto di Dubai, stesse griffe, stessi marchi, la scomparsa di qualunque riconoscibilità locale.

L’ultimo bollettino di guerra (per ora) narra dei 170 negozi chiusi da Bebe, un marchio di moda che sembrava lanciatissimo ancora pochi anni fa ed ora si riconverte per vendite solo online. La catena di moda per adolescenti Rue21 chiude 400 negozi su 1100. Sono due esempi fra tanti in un settore delle vendite al dettaglio che qui in America ha visto 8600 chiusure solo nel primo trimestre di quest’anno: peggio che durante la grande crisi del 2008. Eppure stavolta non siamo in recessione, tutt’altro, abbiamo raggiunto l’ottavo anno di crescita. Quel che accade è dovuto a un cambiamento repentino di abitudini e comportamenti tra i consumatori. L’intero mondo della distribuzione «fisica», con punti vendita su strada, dagli shopping mall alle boutique di nicchia, ha eliminato 50’000 posti di lavoro dall’inizio di quest’anno e siamo solo ai prodromi del disastro. Secondo uno studio di un’azienda immobiliare specializzata negli shopping mall, la Ggp, i centri commerciali per ri-dimensionarsi su misura della spesa attuale dovrebbero chiudere il 30% dei loro spazi e licenziare quasi cinque milioni di persone. È un atto di morte, nella nazione che aveva inventato un modello e lo aveva esportato nel resto del mondo.

E ancora c’è spazio di crescita per il commercio online. Le vendite su Internet sono appena il 10% del totale e già hanno provocato cotanto sconquasso. Figurarsi cosa può accadere in futuro. Il modello di partenza lo hanno offerto libri, Cd e video, dove l’avanzata di Amazon e dei suoi emuli fu formidabile, al punto che oggi in quei settori oltre il 60% delle vendite sono online. Segue la stessa curva di apprendimento il settore dell’elettronica e delle forniture per uffici, già vicino al 40% di vendite su Internet. Stanno facendo la stessa fine i giocattoli per bambini, forse perché la rinuncia a visitare di persona i negozi ha sollevato i genitori da uno stress? Ogni luogo comune ha vita effimera, si diceva che mai ci saremmo rassegnati a comprare vestiti e scarpe senza provarli fisicamente, e invece è questo uno dei settori di maggior crescita delle vendite online. Anche qui Amazon ha fatto da pioniere ma molti applicano la ricetta: velocità delle consegne, facilità nel restituire la merce di cui non si è soddisfatti e ottenere l’immediato rimborso. Amazon è arrivata in ritardo nell’ultima frontiera che è la spesa per alimenti freschi, ma ora cerca di recuperare il terreno con l’acquisizione dei supermercati salutisti Whole Foods. Nomi gloriosi come Macy’s e Penney, icone del consumismo americano, attraversano crisi esistenziali dagli sbocchi incerti. E la nuova geografia delle città salpa verso destinazioni sconosciute.

Un’altra tecnologia che cambia le carte geografiche del nostro vissuto quotidiano è Uber. Idea geniale, vincente nel mondo intero (o quasi). Azienda inguaiata, col top management decapitato di recente. È questo un paradosso di Uber. Questa app nata a San Francisco ha rivoluzionato la mobilità urbana, in tutti i sensi. Nel giorno stesso (20 giugno) in cui si dimetteva il suo fondatore e chief executive, il quarantenne Travis Kalanick, «The Wall Street Journal» dedicava un intero inserto speciale al tramonto della «proprietà dell’automobile». Un concetto obsoleto, soprattutto per i giovani che hanno sposato in massa il car-sharing e ogni altra formula che privilegia l’uso sul possesso. A San Francisco un’inchiesta recente ha rivelato che nel budget mensile dei Millennial la voce di spesa Uber ormai svetta in testa, a pari valore con l’affitto della casa. Ma al tempo stesso gli scandali avvinghiano Uber e la mettono in seria difficoltà. Al punto che l’esperto di antitrust Benjamin Edelman sulla prestigiosa «Harvard Business Review» pronuncia questa sentenza drastica: «Uber non può essere risanato. È fondamentalmente illegale, è ora che i regolatori la chiudano».

È difficile trovare un’altra azienda al mondo capace di suscitare emozioni così contrastanti, dall’ammirazione all’odio. A 8 anni dalla sua fondazione a San Francisco, questa app inventata per procurarsi un passaggio in auto a pagamento è ancora tecnicamente una start-up, poiché non è stata collocata in Borsa. Ma già viene stimata a 70 miliardi di dollari. Tra i suoi azionisti: il fior fiore del venture capital della Silicon Valley ed anche blasonate banche d’affari di Wall Street come Goldman Sachs e Morgan Stanley, nonché il fondo sovrano dell’Arabia saudita. Sono loro ad avere accelerato la resa dei conti con Kalanick fino alle dimissioni. Il fondatore resta tuttavia in possesso di una maggioranza delle azioni con diritto di voto.

I guai per Uber sono di varia natura. Quelli più dannosi per la sua immagine – visto che l’utente medio di Uber è urbano, cosmopolita, digitalmente evoluto, spesso liberal – hanno a che vedere col sessismo. Si va dalle denunce di alcune dipendenti donne sul clima maschilista all’interno dell’azienda; fino all’episodio in cui un top manager ha cercato di diffamare una donna che è stata stuprata da un autista Uber in India. Poi c’è una causa legale avviata da una filiale di Google che progetta auto senza pilota: l’accusa verso Uber è di spionaggio industriale. Infine un’azione legale del governo di Washington, che accusa Uber di frodi per aggirare le leggi sul trasporto urbano (la start-up di San Francisco avrebbe usato un software ingannevole per depistare le autorità). La reputazione di Uber ne ha sofferto, una recente indagine rivela che l’80% dei clienti Uber sono informati sugli scandali. La principale concorrente, Lyft, ha aumentato la sua quota di mercato dal 21% al 25% in soli tre mesi. La posizione di Uber resta dominante col 75% del mercato Usa, ma partiva dal 90% ancora un paio di anni fa. Il bilancio continua ad essere in rosso (700 milioni di perdite nel primo trimestre) ma quest’ultimo è un «dettaglio» nel mondo delle start-up e non solo. Un colosso come Amazon insegna: l’azienda di Jeff Bezos accumulò perdite per molti anni, la logica era quella di occupare il mercato senza badare a spese.

La città dove Uber è nata è l’osservatorio ideale per capirne i meriti. San Francisco era tristemente nota per la pessima qualità del servizio taxi (introvabili), oggi è una città «liquida» per la facilità con cui si ottiene un passaggio a pagamento. Ma perfino sulla costa opposta, a New York, la qualità del servizio Uber nella versione X e Black riservata a professionisti con licenza di autonoleggio è incomparabilmente superiore ai taxi gialli pur abbondanti. Nell’America «di mezzo», fra le due coste, Uber ha reso «liquida» la mobilità in tante aree di provincia dove il servizio taxi è sempre stato quasi inesistente o costoso. Un’altra rivoluzione di stili di vita.