«Stiamo difendendo i confini d’Europa»

Ucraina, la guerra ha stravolto anche le vite di Alina e Vassily che sono rimasti per amore del loro paese
/ 21.03.2022
di Francesca Mannocchi

La storia dell’invasione ucraina è anche una storia di famiglie spezzate, fratture profonde che stanno lacerando comunità, dividendo i figli dai padri, fratelli e sorelle. Che parlano lingue diverse e non si capiscono. Crepe che c’erano già, volutamente dimenticate, e che la guerra ha fatto esplodere con la complicità della violenza delle armi. Famiglie come quella di Alina, che ha ventisei anni, è un’attivista a Dnipro, città popolosa al centro dell’Ucraina. Vive con sua nonna. Sua madre trasferita altrove con un nuovo marito, suo padre nella stessa città ma a tifare Putin. Quando è iniziata la guerra, il 24 febbraio, l’ha chiamata e le ha detto: preparati ad accogliere l’esercito che ci libererà. Alina era incredula, sulle prime. Ma ancora non riusciva ad essere arrabbiata. Era sempre suo padre, d’altronde. Poi sono passati i giorni, e con i giorni hanno cominciato a circolare immagini drammatiche: le vie di comunicazione distrutte, gli ospedali colpiti così come le scuole, gli asili, i teatri, le cliniche di maternità. Si cominciavano a contare gli edifici residenziali danneggiati dai razzi e dalle bombe e insieme alle case distrutte si contavano i morti civili.

Per dieci giorni a Dnipro le sirene antiaeree non hanno suonato mai, la città – la terza del paese per estensione e popolazione – era stata risparmiata dalla tensione, dalla preoccupazione e dal dramma. Poi una notte Alina e sua nonna sono state svegliate dal suono ormai familiare che avverte della presenza del pericolo dai cieli, sua nonna ha pianto, e poi singhiozzato. Alina l’ha tenuta per un braccio e accompagnata nella brandina in cantina, il seminterrato che avevano predisposto come rifugio. L’ha aiutata a stendersi e le ha detto che tutto sarebbe andato bene. La mattina dopo, a pericolo scampato, suo padre l’ha chiamata di nuovo per chiedere se fosse preoccupata, in salvo, e cosa avesse intenzione di fare. Lei ha detto solo una frase: «Resto qui, slava Ukraina». Gloria all’Ucraina. Ha poi chiuso la conversazione e da allora non si sono più sentiti. Né più, crede Alina, si sentiranno in futuro.

Quando cammina per le vie di Dnipro, che sono sotto attacco, piene di check point, barricate di sacchi di sabbia circondate da bottiglie molotov, Alina dice che non potrebbe vivere altrove. È la sua città, è nata lì, la vede splendida sotto la neve, luminosa quando si accende la primavera. Indica l’università in cui ha studiato, il suo locale preferito, ormai chiuso e che arreca sulla porta d’entrata il menu del giorno, fermo al 23 febbraio, il giorno prima dell’invasione. Alina è la generazione post sovietica di cui Putin ha paura. Di quell’epoca ormai lontana, le restano i ricordi e la scissione della sua famiglia, una madre che guarda a ovest e sostiene l’attuale governo, e un padre che guarda a est e vorrebbe che il paese tornasse sotto l’influenza di Mosca. Non è cieca, tuttavia, lo sguardo che pone sulla sua comunità è lucido e saggio. Sa che il suo non è un paese perfetto, ma sa che la storia e i suoi processi hanno tempi lunghi che non si esauriscono in una o due generazioni, e che l’Ucraina non solo non ha ancora fatto i conti col trauma post-sovietico, non ha ancora fatto i conti con gli effetti di Euromaidan, la rivoluzione del 2014 che ha dato l’avvio alla guerra. Guerra che, lo ricorda Alina, con forza, non è iniziata un mese fa «siamo in guerra da otto anni, è bene che l’Occidente questo lo ricordi».

Alina ha già pianto amici al fronte e si prepara a piangerne altri. Gli uomini dai 18 ai 60 anni, lo ricordiamo, non possono lasciare il paese, Zelensky ha invitato non solo tutti i suoi concittadini ad armarsi e difendere l’Ucraina, ma ha lanciato un appello anche ai combattenti stranieri, affinché arrivino nel paese a fianco del suo esercito. Così in ogni città, da ormai un mese, ci sono centri di reclutamento dove gli uomini e i ragazzi possono iscriversi e rendersi disponibili a raggiungere il fronte e si stanno rafforzando le Unità di difesa territoriale. Molto si è detto sulla straordinaria tenuta delle truppe di Kiev, ma è certamente utile ricordare quanto, negli ultimi otto anni, questo esercito sia cambiato e si sia evoluto anche grazie all’aiuto occidentale. Talmente cambiato e talmente evoluto da aver nei fatti arenato l’avanzata russa, pensata come un’operazione lampo, che rischia invece di diventare un pantano. Otto anni fa, nel 2014, l’esercito ucraino era in rovina. In meno di un decennio, grazie alla riforma delle forze armate del 2016 e l’arrivo di milioni di dollari di aiuti occidentali ed equipaggiamento militare, oggi Kiev ha un esercito professionale e molto equipaggiato. Ha missili anticarro Javelin, missili Stinger, unità speciali addestrate dagli americani nella base di Yavoriv. Ma ad aggiungersi a questi elementi va anche la struttura di uno spirito patriottico che, a partire dall’inizio della guerra in Donbass nel 2014, è andato costantemente crescendo.

La parte armata di questo spirito patriottico sono le Unità di difesa territoriale, gruppi di volontari accorsi e formatisi in tutto il paese a partire, appunto, dal 2014 per combattere i separatisti. E se all’inizio il loro intervento al fronte era disomogeneo, poco strutturato e caotico, oggi queste decine di migliaia di volontari vantano anni di addestramento militare e arrivano alla guerra con cognizione. Il primo gennaio scorso, per organizzare meglio le unità di volontari, il Parlamento di Kiev aveva approvato una legge per rendere le Difese territoriali un ramo autonomo ma all’interno dell’esercito, numeri alla mano dovrebbero essere 10 mila soldati professionisti e 120 mila riservisti divisi in venti o trenta brigate. Una riforma in divenire in parte sospesa e in parte gioco forza accelerata dal conflitto.

Anche l’esistenza di Vassily è stata accelerata e deviata dal conflitto. Ha 45 anni e nella vita di prima – quella fino al 23 febbraio – era un consulente per le aziende che si occupano di trasporti internazionali in est Europa. Oggi si addestra alla guerra, con una mimetica e un fucile. Vassily, che non ha neppure fatto il militare perché esonerato dagli studi all’estero, ha fondato una brigata con il suo amico di infanzia Serghei, l’hanno chiamata «Freedom island», come chiamano il pezzo di città in cui vivono e dove sono nati e cresciuti. Vorrebbero più armi dal governo e dall’Occidente perché, dicono, «non stiamo difendendo solo i nostri confini, ma anche i confini d’Europa». Si sentono pronti a combattere ma esitano quando pensano che la guerra significhi rischio di morire ma anche di uccidere. Erano civili fino a un mese fa, oggi dicono di sé di essere civili-soldato. Non si interrogano più sul perché di questa invasione, né sulla sua evoluzione. Pensano all’oggi, mandare fuori dal paese le loro famiglie e fare di tutto per difendere la terra che amano. Ci metti poco, dicono, a capire che o uccidi o muori. Il problema, per tutti gli uomini come loro, e tutti noi che stiamo a guardare al di là dei confini dell’Ucraina, è come rimetteremo in ordine quello che la guerra ha travolto e sta travolgendo e come torneranno a essere normali civili, questi uomini trasformati dalla sera alla mattina in combattenti.