I dazi contro la Cina partono, sia pure in versione parziale, per adesso. Entro il 15 giugno l’Amministrazione Trump pubblicherà l’elenco dei primi prodotti made in China – per un valore totale di 50 miliardi di dollari d’importazioni annue – che saranno colpiti dalla tassa doganale del 25%. È questa la prima tranche dell’offensiva più vasta, quella che dovrebbe colpire importazioni cinesi per un totale di 150 miliardi annui. Entro il 30 giugno entrerà in vigore un altro dispositivo protezionista: nuove restrizioni a quegli investimenti cinesi negli Stati Uniti che sono finalizzati all’acquisto di tecnologie avanzate.
Tutto ciò è sempre passibile di modifiche dell’ultima ora. Mentre scrivo il segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin, e il segretario al Commercio Wilbur Ross, aprono una nuova puntata nei negoziati bilaterali Washington-Pechino su commercio e investimenti. Negoziare mettendo la pistola sul tavolo: ormai è una costante dello stile Trump. Su questo dossier economico, così come sulla Corea.
Prima minaccia fuoco e fiamme, la fine del mondo. Poi incassa delle concessioni, vere o presunte, cambia tono, accetta un compromesso, e dichiara missione compiuta. Il copione che abbiamo visto recitare a Donald Trump sul nucleare di Kim Jong-Un, si ripete sulla guerra commerciale con la Cina. Chi aveva visto il mondo sull’orlo di una spirale dei protezionismi (stile anni Trenta) può tirare un sospiro di sollievo? Fra Trump e Xi Jinping sono in atto grandi manovre per trovare un accordo che scongiuri i superdazi. Quanto è significativa la vittoria per l’America? E quali le conseguenze per tutti gli altri paesi, spettatori di questo duetto?
La «quasi-pace» commerciale sembrava raggiunta, fino alla doccia fredda dei dazi su 50 miliardi. Nulla è definitivo, con Trump. Inoltre questo stato di pace armata, misto a sanzioni, avrà conseguenze sul resto del mondo: non è una buona notizia per l’Europa. La decisione di Trump di varare i primi dazi sul made in China, nel bel mezzo di una trattativa tuttora aperta, è una reazione alla vaghezza degli impegni presi dalla Cina. Pechino non ha ceduto infatti sulla cifra «magica» dei 200 miliardi di maggiori importazioni made in Usa, a cui Trump e i suoi tenevano molto. Quella cifra però era assurda, per molte ragioni. Anzitutto fissare un obiettivo così preciso significa ricacciare Pechino verso un modello da «economia pianificata» dove il governo decide quanto importare e da dove, proprio mentre l’obiettivo conclamato dall’America è di accelerare la trasformazione della Cina in una compiuta economia di mercato. Inoltre l’economia americana è già vicina al pieno utilizzo delle sue capacità produttive e non riuscirebbe ad aumentare di colpo la produzione di 200 miliardi di dollari l’anno. Esempio: l’agricoltura Usa è tra le più produttive del pianeta e ha già rendimenti altissimi per le terre coltivabili, è arduo immaginare che possa raddoppiare da un anno all’altro i raccolti. Salvo fare delle semplici partite di giro, per esempio dirottando verso la Cina esportazioni di soia attualmente destinate al Giappone.
Il tema della partita di giro si ripropone per le ripercussioni sull’Europa. È ovvio che una scorciatoia con cui i cinesi possono soddisfare Trump è intervenire sulla composizione delle loro importazioni: per esempio comprando Boeing anziché Airbus. Questo non farebbe della Cina un mercato più aperto, né farebbe dell’economia globale un sistema più equo e reciproco. Semplicemente sostituirebbe prodotti americani a quelli europei. Il rischio è reale.
Abbiamo uno scivolamento verso una logica bilaterale, dove Usa e Cina patteggiano fra loro. Più ci si allontana dal multilateralismo, e si depotenzia il tribunale del commercio mondiale (Wto), più avranno da perdere i paesi piccoli che hanno meno potere contrattuale. Uno sviluppo in netta controtendenza rispetto alla ricerca di un compromesso, è il nuovo disegno di legge che metterebbe ulteriori restrizioni agli scambi hi-tech, per ragioni di sicurezza nazionale. Il tema dello spionaggio industriale legato alla difesa è una spina nel fianco nei rapporti Usa-Cina che non si elimina facilmente.
In quanto alle conseguenze su tutti gli altri: nel mirino ci sono paesi alleati come Germania Giappone e Corea del Sud, le cui auto rischiano dazi americani del 25%. La guerra dell’auto è stata aperta da un comunicato a firma Donald Trump: «Ho dato ordine al Segretario al Commercio di avviare un’indagine sulle importazioni di vetture, camion, e componentistica, per determinarne gli effetti sulla sicurezza nazionale dell’America». Angela Merkel è a Pechino quando arriva l’annuncio bellicoso, e viene «consolata» dal premier cinese Li Keqiang, che le promette una mossa di segno opposto: la riduzione dei dazi cinesi sulle auto d’importazione, dagli attuali livelli iper-protezionisti del 25% al 15%. I due concordano su un comunicato congiunto anti-trumpiano: «Cina e Germania sostengono il libero scambio e il multilateralismo». Li Keqiang aggiunge: «La Cina è aperta e si apre sempre di più». Affermazione tutt’altro che esatta: il mercato cinese è molto meno aperto di quello americano, non a caso i dazi «normali» che pratica da anni Pechino sono il quintuplo di quelli americani. Resta vero tuttavia che la Germania è uno dei paesi che hanno una bilancia bilaterale in attivo con la Cina. Ambedue hanno lo stesso modello di sviluppo mercantilista, cioè trainato dalle esportazioni, con macro-squilibri a base di avanzi commerciali col resto del mondo. L’intesa era già nei fatti, ora diventa esplicita politicamente in reazione agli atti di Trump.
L’ultima tornata di dazi (minacciati) tende a coalizzare contro Washington degli alleati storici: infatti i maggiori esportatori di auto negli Stati Uniti non sono cinesi (l’automobile è uno dei pochi settori dove le loro marche non sfondano) bensì giapponesi sudcoreani e tedeschi. Nel mirino finisce anche il Messico, non con marche sue bensì con fabbriche «maquiladoras» dove vengono assemblati modelli della Ford e General Motors nonché altre auto giapponesi e tedesche.
Per quanto Toyota e Nissan e Honda da una parte, Volkswagen e Bmw e Mercedes dall’altra, abbiano investito da decenni per «americanizzarsi» insediando fabbriche sul territorio Usa, resta una quota importante delle loro produzioni che viene dai paesi d’origine e quindi ricadrebbe sotto la mannaia dei dazi. Le giapponesi Toyota e Nissan l’anno scorso hanno esportato negli Stati Uniti 1,7 milioni di auto per un valore di 41 miliardi di dollari. Per quanto riguarda le marche europee la parte del leone spetta alle tedesche: più di metà dell’export Ue negli Stati Uniti è loro. Volkswagen-Audi, Bmw e Mercedes, a parte i modelli assemblati negli Usa, hanno esportato dalla Germania 1,2 milioni di vetture per un fatturato di 43 miliardi. Anche in questo caso come per la Cina, Trump può far valere asimmetrie e mancanza di reciprocità: l’Unione europea applica dazi del 10% sulle auto made in Usa, mentre gli attuali dazi americani sono appena un quarto: 2,5%. È uno dei tanti casi in cui il presidente può dimostrare con i dati che il mercato globale «non è un terreno di gioco piatto», ma è inclinato a favore di qualcuno.
Come molte dichiarazioni bellicose di Trump, è sempre possibile che la questione si risolva con dei compromessi. Anche perché l’indagine avviata dalla Casa Bianca dura fino a 270 giorni, quindi i risultati non si conosceranno prima delle elezioni legislative di novembre. Intanto il messaggio chiaro è stato lanciato proprio agli elettori del Midwest che lo votarono nel 2016: Trump mantiene le promesse.
La partita del protezionismo contro la Cina s’intreccia coi preparativi per il summit di Singapore fra Trump e Kim Jong-Un, che è tornato in programma per il 12 giugno… appena 24 ore dopo che il presidente americano lo aveva disdetto. Ma il ruolo essenziale lo gioca fin dall’inizio il presidente della Corea del Sud, Moon Jae In. Fu lui a innescare la catena di eventi – i Giochi olimpici della pace, la squadra sportiva unificata delle due Coree – che hanno condotto dalle minacce di guerra atomica alla promessa dell’incontro faccia a faccia fra Kim e Trump. È stato ancora lui a precipitarsi per incontrare Kim nel weekend, e de-cancellare il summit. Moon si è auto-nominato il portavoce di un leader che per anni ha minacciato di polverizzare la sua capitale, Seul, sotto una pioggia di missili. In questo ruolo di portavoce, Moon ha annunciato che Kim al summit di Singapore ci tiene moltissimo ed è pronto a mettere sul tavolo la «denuclearizzazione completa» della penisola coreana.
Moon è l’esponente della sinistra pacifista sudcoreana. Un po’ come la sinistra pacifista europea che negli anni Settanta pensava «meglio rossi che morti», e per disinnescare la crisi degli euromissili era disposta a cedere ai ricatti dell’Unione sovietica, anche la sinistra sudcoreana è antiamericana e tentata dal neutralismo. Che risucchierebbe lentamente Seul verso l’orbita della Cina.