Joe Biden descrive la sua tournée europea come un trionfo della nuova America: all’insegna del multilateralismo, dell’impegno per la lotta al cambiamento climatico, del rafforzamento delle alleanze. Punta il dito contro i grandi assenti, Xi Jinping e Vladimir Putin, per descrivere Cina e Russia come i reprobi che non partecipano agli sforzi globali per la protezione dell’ambiente. Ma la propaganda della Casa Bianca non riesce a occultare le tante contraddizioni di questo presidente, anche sul terreno ambientale. Mentre lui riafferma l’obiettivo della transizione verso un’economia a zero emissioni, è ancora fresco il ricordo del suo appello all’Opec – il cartello dei paesi produttori di petrolio – perché aumentino la produzione di greggio al fine di calmierare i rincari. Peraltro gli stessi Stati Uniti hanno aumentato le proprie esportazioni di gas naturale verso il resto del mondo, Cina inclusa: e benché il gas sia meno inquinante del carbone, è pur sempre un’energia fossile. Infine, buona parte dell’agenda ambientalista di Biden è racchiusa dentro il piano decennale di 555 miliardi di dollari di investimenti in energie rinnovabili e tecnologie verdi. Quel piano deve ancora essere approvato al Congresso. Quand’anche dovesse diventare legge, una maggioranza repubblicana al Congresso e un futuro presidente repubblicano potrebbero smontare quasi tutto ciò che questa Amministrazione democratica sta avviando. Delle contraddizioni di Biden sono consapevoli gli alleati europei, ormai ammaestrati dal passato: nell’alternanza da Bill Clinton a George W. Bush, da Barack Obama a Donald Trump, la politica americana su energia e ambiente ha dimostrato di essere soggetta a sterzate continue.
Le contraddizioni cinesi non sono da meno. La partecipazione a distanza di Xi Jinping alla Cop26 ha un chiaro valore simbolico: il presidente cinese non è neppure intervenuto in videostreaming, limitandosi a mandare a Glasgow il testo scritto del suo intervento. La diplomazia della sedia vuota coincide con una battuta d’arresto nella transizione cinese verso un’economia a zero emissioni. Sul cambiamento climatico Xi non vuole rendere conti a nessuno. A casa sua affronta una crisi energetica ancora più grave di quella che colpisce l’Europa. La ripresa dell’economia cinese e il boom delle esportazioni verso il resto del mondo si sono scontrati con il vincolo dei carburanti e della corrente. Penurie di benzina e gasolio hanno provocato i primi razionamenti. Dei blackout elettrici hanno costretto a chiudere fabbriche, e da due mesi la produzione industriale cala. Xi cerca aiuto dalla più inquinante di tutte le fonti: il carbone. Ha rimesso in servizio miniere di carbone dismesse, al punto che questa produzione aggiuntiva supera tutto il carbone estratto in un anno in Europa occidentale. Già prima di queste misure di emergenza la Cina con il 50% del suo fabbisogno energetico legato a questa fonte consumava da sola più carbone di tutto il resto del mondo.
Xi non rinuncia ai suoi piani sulle tecnologie sostenibili. La sfida ambientalista lui la interpreta in chiave geostrategica, come la competizione per dominare le tecnologie del futuro. La Cina ha già conquistato una supremazia mondiale nei pannelli solari (dove le sue esportazioni sottocosto hanno fatto fallire tanti concorrenti occidentali), nell’eolico, nelle batterie; punta verso un semi-monopolio nelle terre rare e nei metalli indispensabili alla produzione di auto elettriche. Prosegue con i suoi piani ambiziosi nel nucleare che considera a pieno titolo come una fonte rinnovabile. Ma Xi non è disposto a bruciare le tappe nell’abbandono delle energie fossili, se questo implica delle rinunce sulla crescita economica, il benessere, la stabilità sociale del suo paese. La sua assenza fisica da Glasgow tradisce anche l’insofferenza verso le prediche dei governi occidentali o gli slogan apocalittici. Questa presa di distanza ha un peso sostanziale perché la lotta all’inquinamento si decide in Cina, già oggi responsabile per il 28% delle emissioni planetarie di CO2, più di Europa e America messe insieme.
Nell’immediato la posizione di Xi ha creato un’opportunità per Joe Biden. Nel sospendere i dazi contro l’acciaio e l’alluminio europeo, Biden ha introdotto il principio di una tassazione ambientalista contro «l’acciaio sporco», quello prodotto in Cina con altiforni a carbone. L’idea di una carbon tax alla frontiera, un dazio verde, circolava già in Europa. La Cina produce il 56% dell’acciaio mondiale, anche in questo settore ha conquistato un ruolo soverchiante. Le convergenze atlantiche prefigurano un nuovo protezionismo che viene incontro a una richiesta ambientalista: l’esigenza di fermare quella corsa al ribasso per cui il commercio internazionale ha consentito di aggirare le regole contro l’inquinamento. Come la global minimum tax vuole invertire decenni di favori alle multinazionali nei paradisi fiscali, così il dazio verde si candida a ostacolare la delocalizzazione delle produzioni sporche negli inferni ambientali.
La diplomazia a distanza di Xi segna un’era diversa rispetto a cinque anni fa, quando al World Economic Forum di Davos il presidente cinese era parso l’anti-Trump, il difensore della globalizzazione contro i sovranismi. Però il suo «realismo ambientalista», che rifiuta di sacrificare la crescita economica, ha una risonanza ampia, si candida a raccogliere consensi fra le nazioni emergenti, e nei ceti medio-bassi dei paesi occidentali.
I leader delle due superpotenze devono affrontare problemi simili, anche se sono molto diversi i loro livelli di sviluppo, di consumo energetico pro capite, di impronta carbonica. La transizione verso un mondo che funzioni con «zero emissioni» carboniche deve essere sostenibile anche da un punto di vista economico e sociale. Esiste il rischio che il costo dell’abbandono di energie fossili pesi sui ceti sociali più deboli e sui paesi più poveri. Un esempio è la carbon tax, cioè la tassa che penalizza l’uso di energie inquinanti: nel breve termine può gravare in modo prevalente sui pendolari che devono usare una vecchia automobile a benzina o gasolio, perché non possono permettersi di comprare un’auto elettrica o di abitare nei centri urbani vicino ai loro luoghi di lavoro. Ci sono categorie operaie che rischiano la disoccupazione, se le industrie in cui lavorano vengono smantellate: dalle miniere a certi altiforni siderurgici. I paesi poveri hanno problemi simili su scala ancora superiore. Cina, India, Brasile, l’Africa intera, a lungo avranno ancora bisogno di usare il carbone per generare energie elettrica. Bruciare le tappe del suo abbandono, significherebbe ritardare lo sviluppo economico e condannare centinaia di milioni di persone alla povertà, che uccide più del cambiamento climatico. La ricerca di una transizione sostenibile è essenziale per non perdere il consenso della maggioranza dei popoli.