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Stati: macrospese, ma microrisparmi

Finanze pubbliche - Non sempre «spesa pubblica» è sinonimo di miglior welfare. Dietro ad essa si celano, invece, spesso inefficienze strutturali
/ 03.04.2017
di Edoardo Beretta

Evidentemente, non sarebbe fattibile affrontare la tematica dell’imposizione fiscale nella sua complessità – a maggior ragione, avendo i decisori economico-politici da sempre dimostrato grande inventiva in ambito tributario e tariffario sorprendendo regolarmente i contribuenti. Vi sono, però, macrotrend ormai da tempo palesi, fra cui l’uso più massiccio di forme «alternative» di tassazione. Se nell’articolo IVA, la più amata dai Governi europei (in «Azione», 9.11.2015) si è già avuto modo di evidenziare quale e quanta leva facciano i Paesi membri della UE (ed, ancor più, dell’Area Euro) su vigorosi rialzi dell’IVA (pari nel 2015 a quasi +2,6% rispetto al 2002, anno di riferimento principale per l’introduzione dell’Euro), le risorse a copertura del (crescente) fabbisogno statale sono crescentemente attinte da accise, commissioni varie o forme esattive una tantum. Se l’imposizione indiretta è sì priva di quell’impatto sul reddito disponibile individuale (che è, invece, generalmente attribuito a quelle dirette), essa grava sulla principale variabile di contributo al PIL, cioè i consumi. Almeno se combinato con fattori quali restrizioni legali all’utilizzo di mezzi di pagamento contanti laddove ancora prediletti, tale trend può costituire in epoche di saturazione commerciale un potenziale disincentivo alla spesa.

Quest’ultimo aspetto potrebbe apparire per certi versi positivo, se collegato al fatto che l’indebitamento privato (purtroppo sottovalutato, ma galoppante) sia un dato di fatto: chi è effettivamente intenzionato all’acquisto – si potrebbe pensare – non si lascerebbe certo scoraggiare da tali misure. In realtà, non deve essere necessariamente così, in quanto affiancate dalle forme impositive sui redditi individuali oltre che sulla sostanza (cioè la tanto in Italia evocata o esorcizzata a seconda dei proponenti «patrimoniale»). Se l’imposizione fiscale di nuovi redditi è legittima (in quanto, fino ad allora, non sottoposti a prelievi fiscali), lo è meno comprensibile (perlomeno, ai fini di evitare una doppia tassazione) quella su patrimonio, immobili oltreché rendite pensionistiche. Come si è potuto già illustrare in Reddito e rendita, simili eppur diversi (in «Azione» 11.4.2016) con riferimento agli assegni pensionistici, trattasi di voci contabili già tassate in precedenza (sotto forma di redditi da lavoro, ad esempio): quindi, «pensione» non deve essere intesa quale «reddito» (ma quale «rendita») ed, in quanto tale, non dovrebbe essere tassata se non per la sola parte in eccedenza rispetto a quanto versato dal contribuente nell’arco lavorativo e poi indicizzato. Lo stesso dicasi per patrimonio ed eredità, che – allorquando già imposti nella forma primordiale di reddito – non dovrebbero subire ulteriori prelievi. Se poi si volesse spostare il focus sul macro-tema «eticità», allora le argomentazioni potrebbero anche variare, sebbene la necessità di redistribuire il reddito (motto trasversalmente en vogue) sia un «falso problema».

La verità è che gli Stati hanno saputo troppo poco risparmiare rispetto all’ampliamento del bacino di competenze (e, di converso, dei costi connessivi), di cui si sono presi carico. La crisi economico-finanziaria globale con i suoi «salvataggi a catena» di attori finanziari (ed il fisiologico decremento di PIL ed entrate tributarie a parità di tassazione) è stata la proverbiale goccia che ha fatto traboccare il vaso. Se il debito pubblico non è equiparabile a quello privato (essendo il primo grazie ai suoi bond anche una forma di detenzione del reddito da parte della società stessa), non significa che non vi sia un limite alla sua sostenibilità. Ma dov’è il potenziale di risparmio, quindi? Gli apparati statali dovrebbero iniziare a spogliarsi di quell’istinto di sostegno «genitoriale», che li contraddistingue ed – in fin dei conti – li ha fatti impoverire (senza necessariamente avere ottenuto i risultati sperati). Come dimostrano i dati statistici, l’aumento degli introiti da tassazione (rispetto al PIL) è stato diffuso, mentre l’indebitamento pubblico «galoppava». «Mantenere lo stato sociale», slogan assai gradito nel Vecchio Continente, dovrebbe essere riletto in chiave di «darvi sostenibilità» in quanto preziosa conquista. Al bando, quindi, le misure draconiane imposte a taluni Paesi, bensì ritorno alla quintessenza del benessere, cioè la crescita economica (sostenibile). Lo scopo ultimo dei policymaker dovrebbe, infatti, essere quello di creare nuovo reddito – non meramente di trasferirlo, ritornando alla logica del gioco infantile di travasare l’acqua del mare da un bicchierino all’altro.