Sotto le bombe alla ricerca della verità

Il grigionese Pierre Ograbek è stato (non solo) in Ucraina come inviato di guerra. Ad «Azione» confessa: «Sento ancora nelle mie orecchie il pianto disperato di tutti quei bambini in fuga»
/ 18.04.2022
di Guido Grilli

Se non ci fossero loro ad accettare di spingersi in quei luoghi dilaniati dalle bombe, noi non sapremmo quasi nulla. Loro sono gli inviati di guerra, i reporter al fronte che nel nome dell’informazione, la più oggettiva possibile, percorrono vie ricolme di insidie e ostacoli. Pierre Ograbek è uno degli inviati di guerra Rsi che da subito, sin dal primo giorno di invasione dell’Ucraina da parte della Russia, il 24 febbraio, è partito per la Polonia e ha quindi varcato a piedi il confine, raggiungendo la città di Leopoli. Lo abbiamo intervistato.

Come si gestisce l’ansia di operare in un luogo di conflitto? Quali sono le precauzioni da adottare? Con quali strumenti di lavoro occorre partire?
Non sapevo che situazione avrei affrontato in Ucraina, mi sono ritrovato di fronte a un’enorme incognita. Il 24 febbraio sono partito con la sola certezza che questo attacco russo fosse proprio di ampia scala e molto violento. C’è stato un esodo immediato e io mi ritrovavo a percorrere la strada al contrario. Di solito sì, c’è ansia, soprattutto per questioni tecniche: nelle zone di guerra basta un piccolo inghippo per perdere almeno mezza giornata di lavoro. Oppure c’è il rischio che il materiale venga danneggiato o magari confiscato. Questa volta la questione della sicurezza era importantissima: c’era sempre la minaccia di un attacco aereo. In queste situazioni tieni gli occhi aperti, sei concentrato e c’è ben poco spazio per l’ansia. Il 24 febbraio di primo mattino ho ricevuto una chiamata dalla mia responsabile di redazione. Mi chiedeva se fossi disponibile a partire subito. In realtà lo ero già da alcuni giorni, anche se non mi aspettavo uno scenario così drammatico. In un paio di ore ho dovuto capire come muovermi, quali zone evitare, trovare un biglietto aereo per la Polonia, recuperare un giubbotto antiproiettile e l’accredito che avevo chiesto un mese prima al Ministero della difesa ucraino. Ho preso solo lo stretto necessario: un laptop, due registratori, un microfono, due smartphone. Biancheria di ricambio per pochi giorni.

Qual è stato il tragitto percorso e quali mezzi ha utilizzato?
Ho preso un volo per Varsavia e da lì un aereo per Rzeszów, vicino al confine occidentale dell’Ucraina. Sono arrivato all’una del mattino. Poi, dopo poche ore di sonno, ho preso un taxi fino alla dogana. Sono sceso, con il mio zaino e con il mio trolley, e ho proseguito a piedi. Ero praticamente l’unico a voler entrare in Ucraina in quel momento. Sono rimasto tre ore, immergendomi nel fiume di persone che stavano fuggendo, che aspettavano al freddo di entrare in Polonia. Ho raccolto le loro storie. Non c’era nessun tipo di assistenza, nessuno che offrisse loro qualcosa di caldo da bere o da mangiare. Nessun tipo di organizzazione, in quel momento.

Più in generale, può raccontarci le tappe più significative della sua esperienza di giornalista?
Come reporter avevo già potuto seguire la fine della guerra in Kosovo nel 1999, dove ero stato accolto da tantissimi abbracci perché per i civili l’apparizione di un giornalista significava che la guerra era veramente finita. Nel 2000 sono stato negli Usa per le elezioni presidenziali, realizzando dei reportage nel sud del paese grazie ai quali ho anche potuto visitare il più grande carcere americano di massima sicurezza. Nel 2013 invece mi sono ritrovato a camminare in mezzo a centinaia e centinaia di cadaveri, a Tacloban (nelle Filippine), città devastata dal tifone Haiyan. Ho coperto per 7 volte il Forum economico mondiale di Davos. Ho realizzato reportage in Russia, nel Myanmar, in Cambogia, in Cisgiordania e a Gaza, in Ecuador, in Tunisia, in Bosnia… E da 8 anni ormai seguo le vicende ucraine.

Restiamo in Ucraina. Parliamo delle fonti e delle difficoltà linguistiche. Come è riuscito a comunicare? E di quali canali informativi ha potuto disporre?
Possiedo qualche rudimento di russo e sicuramente presto o tardi ricomincerò a studiarlo, con la speranza che poi mi sia possibile imparare rapidamente anche l’ucraino. In Ucraina è comunque relativamente facile comunicare in inglese, soprattutto con i più giovani. Per informarmi ho fatto capo a tutte le fonti disponibili. Vedere una notizia ripresa magari 80 volte non voleva però per forza dire che fosse vera: significava magari che tutti stavano facendo capo a un’unica fonte disponibile, non accertata. C’è stata una valanga di notizie a proposito di questa guerra. Bisogna fare tanti confronti e valutare quali siano le fonti più credibili e le più serie. È indispensabile saper riconoscere le informazioni di qualità, il giornalismo di qualità. Può anche diventare di importanza vitale.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia si è rivelata sin da subito contraddistinta dalla propaganda, un’arma pericolosa quanto le bombe. Una difficoltà che complica il lavoro di giornalista e la ricerca della verità. Se ne è avuta prova con l’accusa di messinscena e di negazione da parte della Russia sull’uccisione di civili a Bucha. Qual è stata la sua esperienza in termini di strumentalizzazione del conflitto?
Il caso più evidente: il numero di perdite annunciate da entrambi i fronti. Ci ritroviamo con cifre estremamente discordanti. Conosciamo bene l’apparato di comunicazione russo. È stato sorprendente invece vedere in che modo l’Ucraina abbia subito adottato una strategia comunicativa molto diversa: nel giro di pochi giorni le autorità hanno iniziato a fornire molte più informazioni in inglese, organizzando diverse conferenze stampa quotidiane. È difficile lavorare in queste condizioni e verificare costantemente, in modo indipendente, tutte le informazioni che ci vengono fornite. Bisogna investire molto tempo. Spesso si va anche per esclusione: è per lo meno facile riconoscere quale media stia esagerando nei propri resoconti o quale testata diffonde delle notizie manifestamente non vere. In questo modo si squalificano da soli.

Se questa guerra può essere raccontata è soprattutto grazie agli inviati in Ucraina. Quanto è stato importante il suo ruolo di testimone?
Non sta a me valutare quanto importante sia stata la mia di presenza, ma ammetto che mai come in questa occasione ho ricevuto numerose reazioni e ringraziamenti per essere subito andato nel paese sotto attacco, per offrire qualche racconto, qualche testimonianza, qualche voce e qualche suono dall’Ucraina scossa improvvisamente da una guerra su così ampia scala, dopo 8 anni di guerra a bassa intensità nel Donbass. Essere sul terreno è tutt’altra cosa che non essere seduto per 8 ore in redazione davanti a un monitor, seguendo le notizie offerte da inviati stranieri. Anche questo fa parte di un servizio pubblico che offre chiavi di lettura serie per capire quanto stia capitando attorno a noi.

Quali sono state le scene più dolorose alle quali ha assistito?
Ammetto che sento ancora nelle mie orecchie il pianto di tutti quei bambini, quel pianto disperato che scoppia all’improvviso… Bambini in fuga da giorni, in una stazione ferroviaria strapiena o su dei vagoni strapieni, trascinati dalle mamme e dalle nonne, che frettolosamente cercano di salire sul prossimo treno o bus diretto all’estero. Bambini che scoppiano in lacrime perché vogliono fermarsi, perché vogliono dormire o giocare. E che non hanno ancora avuto il tempo per dimenticare il rumore delle bombe cadute sulle loro città. Ma è stato impressionante anche vedere tutti gli uomini tra i 18 e i 60 anni fermi in colonna, davanti ai centri di reclutamento. Una procedura obbligatoria; per loro è vietato fuggire all’estero. E nel giro di pochissimi giorni si gioca il loro destino: magari restano a casa in attesa di una chiamata, magari finiscono subito in prima linea a combattere.