Mezzogiorno al supermercato «Plaza», catena di proprietà portoghese in un viale alberato di Las Mercedes, quartiere borghese e ombreggiato dell’est di Caracas. Dieci metri di fila all’uscita. I clienti dondolano in paziente attesa, cullati da una versione rap di Si Adelita se fuera con otro diffusa da una radio appesa sopra alle casse.
Il sergente Figueroa, nome e grado ricamati sul taschino della divisa, controlla le buste della spesa di ciascuno. «Si può comprare un massimo di un chilogrammo di farina di mais e una confezione di latte in polvere a testa. Verifichiamo che i cittadini non facciano inutili scorte», ripete a tutti con tono pacato il sergente, che passa la giornata impettito in tenuta verde oliva dietro alla vetrina a fare la guardia allo scaffale di carta igienica, merce preziosa importata in dollari dalla Colombia. Lui è l’ultimo anello della Clap, la rete dei Comités locales de abastecimiento y producción, il sistema governativo di distribuzione alimentare responsabile di garantire il rifornimento ed evitare il contrabbando. La Clap è in mano alle forze armate. Come quasi tutto in Venezuela.
I militari controllano quel che produce o fa circolare denaro, a cominciare dall’industria pubblica del petrolio, Pdvsa. Loro si occupano della distribuzione dei prodotti di consumo. È occupata da militari la gran parte dei posti di comando politico, compresi le cariche di governatore negli Stati più importanti (il Venezuela ha una struttura statale federale) e i vertici delle società import-export, dove sono nascoste le chiavi della cassa di Caracas.
Sono militari i dirigenti delle società che gestiscono i rapporti con la China national petroleum corporation e quelli che trattano con la Cemex, l’impresa con sede formale a Panama che si occupa della triangolazione commerciale con Cuba. E anche quelli che siedono nelle commissioni miste Cuba-Venezuela, attraverso le quali passa il flusso commerciale a prezzi agevolati tra le «Rivoluzioni sorelle».
Ma da dove arrivano i soldi con cui resta a galla il governo chavista, da cinque anni sull’orlo della bancarotta, un governo che annaspa e non affonda? Gli ultimi, provvidenziali, dalla Goldman Sachs. A fine maggio la banca statunitense ha comprato, con un grosso sconto, bonus venezuelani per il valore di 2800 milioni di dollari pagandoli 865 milioni. Caracas dovrà restituire quattro volte quel che ha ricevuto.
Il Venezuela compra all’estero il 75% di ciò che consuma. È il terzo produttore al mondo di petrolio, ma i milioni di dollari dell’esportazione di greggio sono in gran parte già spesi prima di essere incassati per i debiti accumulati con i fornitori di linee di credito. Innanzitutto con la Cina. Pechino garantisce soldi freschi in cambio di petrolio: 460 mila barili al giorno fino al 2025, anche le spese di trasporto sono a carico di Caracas. I dollari in arrivo da Pechino finiscono nel Fondo Chino, controllato da militari. Caracas ricambia vendendo a prezzi stracciati l’industria nazionale agli acquirenti cinesi. La multinazionale Huawei è ovunque in Venezuela. È cinese Movilnet, la telefonia cellulare venezuelana e Cantv, l’impresa nazionale della telecomunicazioni.
All’ombra di generali seduti ai posti di comando del governo e della macchina statale è cresciuta, a partire dal 1998, prima elezione vinta dal presidente Hugo Chàvez ucciso da un cancro nel 2013, un nuova classe sociale, la «boliborghesia», borghesia bolivariana, ormai diventata una potente élite politico economica.
Denaro fresco entra anche dall’impresa del petrolio. Pdvsa non macina più la grande quantità di dollari dell’era dorata in cui il greggio costava 100 dollari al barile e Chàvez poteva usare Pdvsa come bancomat della sua Rivoluzione, ma è pur sempre la principale industria del Paese.
Perché il presidente Nicolás Maduro, da anni in bilico, non cade? Perché c’è una guerra in corso tra fazioni delle forze armate in Venezuela ed è una guerra sotterranea, almeno per ora, in cui nessuno dei due principali gruppi di potere in lotta prende il sopravvento sull’altro. Questo spiega, in parte, la capacità di Maduro di sopravvivere sull’orlo dell’abisso economico e sociale del Paese. Con una inflazione del 720% nel 2017, prevista oltre il 2.000% per il 2018 secondo gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale. Con imponenti manifestazioni di strada convocate dall’opposizione contro di lui, quasi cento morti contati finora in tre mesi di mobilitazione.
I due grandi gruppi che si contendono al momento il potere nel chavismo sono capeggiati uno dal presidente Maduro, sua moglie Cilia Flores, con il numero due del governo Diosdado Cabello che garantisce l’appoggio di un’ala militare e l’altro dal generale Porfirio Lopez, ministro della Sifesa, sempre più vicino alla Fiscal general Luisa Ortega (una sorta di procuratrice generale nominata dal Parlamento). Luisa Ortega era inizialmente una fedelissima di Cabello. Fu lui a garantire l’ascesa politica della Ortega fino alla nomina al delicato ruolo di Fiscal general. Ora lei punta ad essere la costola del chavismo pronta a staccarsi dal corpo del governo, scommettendo sulla previsione che presto la Rivoluzione sarà sepolta. Su di lei pende un processo del Tribinale supremo che la considera una traditrice. Le è impedito uscire dal Paese. I suoi conti in banca sono bloccati. Con Diosdado Cabello, contro il generale Vladimir Padrino López e la Ortega, gioca di sponda Néstor Luis Reverol Torres , il ministro degli Interni e della Giustizia.
Tutto ciò avviene mentre l’economia sprofonda. Il salario minimo supera di poco l’equivalente di dieci dollari. Non è possibile vivere in moneta nazionale, il bolívar, la valuta in cui vengono pagati gli stipendi, perché la maggior parte dei beni anche di prima necessità si può comprare solo al mercato nero, dove la divisa di riferimento è sempre e solo il dollaro. Dice Gabriela Fuentes, producer cinematografica caraqueña, altra ex chavista militante delusa: «Questo non è un Paese per poveri. I prezzi sono quelli globali. Un caffè al bar costa esattamente l'equivalente di quanto costa a Madrid”.
Yuri Paez lavora al banco di una farmacia del Parque central, quartiere popolare nel centro geografico di Caracas. «I farmaci generici non arrivano quasi mai e quando arrivano spariscono in poche ore» racconta. «Chi può compra al mercato nero i salvavita prodotti da case farmaceutiche straniere».
Nell’aprile scorso è cominciata un’ondata di arresti nell’esercito venezuelano per tradimento e ribellione. Si tratta in maggioranza di colonnelli e capitani. Sono 123, secondo documenti ai quali ha avuto accesso l’agenzia Reuters. L’informazione non è stata commentata da fonti ufficiali. Quaranta di loro sarebbero accusati di diserzione, trenta di tradimento e di insubordinazione. I restanti di furto. Si trovano tutti nel carcere di Ramo verde, a Caracas, dove di solito finiscono i detenuti politici.
Nicolás Maduro ha un grande timore: un golpe. Lui non viene dall’ambiente militare. Era un sindacalista della metro di Caracas. Sa di non essere amato dalla cupola delle forze armate, nonostante abbia fatto di tutto in questi anni per garantire ai militari ogni sorta di privilegio economico e sociale, preoccupandosi anche di tenere buoni i gradi più bassi delle forze armate, riempendo di soldi il loro istituto di previdenza sociale. Le forze armate hanno più influenza nel governo di Maduro di quanta ne avessero con Chávez. Generali e capi di stato maggiore hanno generato un potere parallelo, hanno ottenuto che attraverso di loro passi ogni servizio ed ogni contratto che riguardi il petrolio, le miniere e le costruzioni.
I grandi privilegi economici dei militari e la loro partecipazione diretta al potere sono i due fattori che proteggono per ora a Maduro da un golpe.
Maduro sa anche che la sua decisione di convocare un’assemblea nazionale costituente, prevista per il 30 luglio, ha indispettito molti generali. Le forze armate in Venezuela sono tradizionalmente una forza molto nazionalista. Sopportano malvolentieri sia il legame sempre più stretto con Cuba, sia gli strappi alla Costituzione. Furono decisivi i voti contrari dei militari, per esempio, a far perdere a Chàvez nel dicembre del 2006 l’unica consultazione popolare che non ha vinto nei suoi quindici anni di presidenza: il referendum per approvare modifiche in senso socialista alla Costituzione. E la convocazione, senza referendum popolare, voluta da Maduro, di un’assemblea costituente la cui ragione d’essere è evitare che si tengano presto delle elezioni politiche nelle quali il chavismo rischierebbe di essere stracciato, è un grosso schiaffo alla Costituzione. Che - è questo il punto politico per molti chavisti - non è una Costituzione ereditata dal vecchio Venezuela saudita, ma quella voluta da Hugo Chàvez all’inizio della sua Rivoluzione bolivariana e passata al vaglio del voto popolare.
Con la conflittualità politica costante che si respira a Caracas, una conflittualità esasperata, sempre sul punto di diventare scontro aperto – lo scorso 5 luglio, per dirne una, un gruppo di civili armati è stato fatto entrare in Parlamento dalla Guardia bolivariana e ha malmenato e ferito alcuni deputati d’opposizione - il presidente venezuelano non può permettersi di non controllare le forze armate. La Marina non è sua già da tempo. Molti militari amano ricordare, in privato, che l’insurrezione militare fallita il 4 febbraio 1992, alla quale alcuni di loro hanno partecipato con Chàvez, non aveva in mente il socialismo. Era, dicono, senza ideologia che non fosse l’idea di Simón Bolívar: nazionalismo, democrazia, libertà. Ora che si trovano al capezzale di una rivoluzione fallita schiumano rabbia e meditano vendetta. Racconta un generale in ritiro, dietro la garanzia di rimanere anonimo: «Il nostro è un esercito popolare, con una cultura democratica. Non ci piace ricevere ordini dall’Avana, per quanto indiretti. Non vogliamo la consegna socialismo o muerte”.