Sono tempi di postdemocrazia?

Dibattito – Le attuali tendenze di svogliata partecipazione popolare alla vita politica mostrano disaffezione per questa forma di governo
/ 24.07.2017
di Alfredo Venturi

La democrazia è stanca? Sembrerebbe di sì a giudicare da certe tendenze elettorali, in particolare dal crescente numero di cittadini che considerano superfluo l’esercizio del diritto di voto e voltano le spalle alla politica e ai suoi riti. Forse il sistema politico nato nell’antica Grecia e resuscitato ventitré secoli più tardi dal pensiero illuministico sta scontando le sue contraddizioni, quelle stesse che spinsero Winston Churchill a definirlo la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre. Del resto la democrazia è sempre stata imperfetta, nacque infatti con un vistoso vizio di origine: nella polis ellenica il demos escludeva non soltanto le donne ma anche gli schiavi. La democrazia è tuttora oberata da un limite: conviene a chi è governato ma non altrettanto a chi governa. Prevede un insieme di condizionamenti che ostacolano, di fatto, l’azione di chi è stato chiamato a reggere il timone della cosa pubblica. Ma quei vincoli non sono altro che i diritti dei governati, e se questi ultimi si accorgono che i loro rappresentanti non li rappresentano più, allora scatta il rigetto. È quanto va accadendo da qualche tempo in Europa e nel resto dell’Occidente.

La silenziosa rivolta dei cittadini contro i vecchi riti della rappresentanza si fece largo nelle cronache un quarto di secolo fa in Germania. Correva l’anno 1992 quando Politikverdrossenheit, disaffezione per la politica, fu scelta come parola dell’anno dalla Gesellschaft für deutsche Sprache. Parola dell’anno, perché molti tedeschi non ne potevano più dei dibattiti su governo e partiti, e cambiavano canale quando deputati e ministri si affacciavano ai teleschermi. Nonostante la caduta del muro di Berlino e la riunificazione, che avevano prodotto un momentaneo ritorno d’interesse per la cosa pubblica, a unità acquisita la Verdrossenheit dominava la scena. E così nel resto d’Europa, allora e ancor più oggi. Di questa disaffezione si nutrono le forze anti-sistema, le varie versioni del populismo e i loro controversi personaggi: dalla francese Marine Le Pen all’olandese Geert Wilders, dall’italiano Matteo Salvini alla tedesca Frauke Petry. Per non parlare dell’americano Donald Trump, che deve il sorprendente ingresso alla Casa Bianca anche a questa ondata d’insofferenza per la routine politica.

Gli elettori europei hanno invece neutralizzato alcuni pronostici anti-sistema ricacciando nell’angolo Wilders nei Paesi Bassi e Le Pen in Francia, mentre al contrario la decisione britannica a favore della Brexit deve molto al fenomeno della disaffezione. C’è inoltre da considerare quello che in vari paesi è ormai segnalato come il primo partito: il partito dei non votanti. Perché molti fra coloro che non si riconoscono nel chiacchiericcio della politica tendono a ignorarlo sottraendosi all’adempimento elettorale, percepito sempre più come una liturgia priva di contenuti reali. Oppure affidandosi, come è accaduto nella Francia di Emmanuel Macron, a un movimento come En marche!, che si proclama radicalmente alternativo rispetto ai partiti. Anche in Francia, del resto, l’affluenza elettorale è decisamente in ribasso.

Il fenomeno sembra inarrestabile e ha conosciuto un’evoluzione caratteristica. Esemplare il caso dell’Italia dove la partecipazione al voto, che fu altissima per ovvie ragioni all’indomani della dittatura fascista e della restaurazione parlamentare, si è mantenuta al di sopra del novanta per cento, per l’elezione della Camera dei deputati, fino al 1979: ma poi ha cominciato progressivamente a calare, attestandosi nel 2013 attorno al settanta. Ancora più scarsa l’affluenza al voto in occasione dei referendum, al punto che non di rado, quando si tratta di consultazioni abrogative, la soglia di partecipazione del cinquanta per cento necessaria per produrre effetti concreti è rimasta un miraggio. È il destino inevitabile di una politica estraniata dalla società che ricorre al marketing, e confinando nel passato i comizi e le piazze entusiaste del Dopoguerra si nutre di likes e tweets, in un contesto oscillante fra una distratta indifferenza e un’esplicita ostilità.

È stato un politologo inglese, Colin Crouch, a definire i termini del fenomeno parlando di «postdemocrazia». Nella sua visione il vuoto scavato dai bizantinismi della politica e dalle loro conseguenze sul controllo popolare della classe dirigente viene riempito dai veri animatori della gestione pubblica: i poteri forti, le grandi lobby soprattutto multinazionali, i mezzi di comunicazione di massa. E così la democrazia, che pure conserva i suoi istituti e dunque è formalmente intatta, si affida a una forma nuova di oligarchia, dotata di grandi risorse, attrezzata con i nuovi strumenti informatici di persuasione e dunque sempre più capace di pilotare il consenso. Il britannico Crouch ripercorre le tappe storiche del suo Paese, dove il potere prima si allargò dal sovrano alla nobiltà terriera, quindi passò dai Lords al popolo elettore per poi approdare a questo nuovo tipo di aristocrazia che al sangue blu ha sostituito il controllo del denaro e del pensiero. Partecipa poi al banchetto sulle spoglie apparentemente vitali della vecchia democrazia un nuovo attore, la mano oscura dei servizi segreti o di altrettanto misteriosi centri di potere, capaci di frugare nelle reti sociali, intossicarle con false notizie, costruire per via informatica esiti elettorali sapientemente programmati. E tutto questo in una dimensione globale, oltre le frontiere, da paese a paese.

Intanto la politica parla d’altro, ed è un vizio antico. Pare che nel settimo secolo, quando l’impetuosa espansione araba arrivò a minacciare Costantinopoli, e poi ancora nel quindicesimo, alla vigilia della conquista ottomana, nella metropoli bizantina si discutesse non già di vitali strategie difensive ma di questioni molto meno concrete, anche se capaci di stimolare argomentazioni di rara eleganza dialettica, fra le quali è rimasta proverbiale la disputa sul sesso degli angeli. Qualcosa di simile era accaduto alcuni secoli prima durante le guerre cartaginesi: dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur. Roma si perde in chiacchiere, e intanto il nemico avanza e occupa Sagunto. Sono gli antecedenti classici della politica politicante dominata dai nuovi padroni, chiusa nella torre d’avorio, incurante del reale, affezionata al suo linguaggio esoterico, sorda ai richiami e alle sollecitazioni che salgono dalla società e dunque facile preda dei suoi nemici: il disinteresse di chi non va più a votare e la rabbiosa reazione degli «antipolitici».

Un destino beffardo attende i responsabili di questa deviazione autoreferenziale. Le reazioni che suscita ostacolano e rischiano di rendere inattingibile il solo obiettivo al quale costoro sono tenacemente legati, la conservazione del potere. Spesso il perseguimento di questo obiettivo cancella pratiche correttive come la verifica e l’autocritica, e annulla certi fieri propositi formulati alla vigilia della battaglia: se perdo mi ritiro a vita privata! Recente il caso di Matteo Renzi, che all’indomani del referendum sulla riforma costituzionale, chiamato a tener fede all’impegno di dimettersi ha sì lasciato la guida del governo ma non certo quella del suo partito. Che poi è andato incontro a una scissione a sinistra attraverso una procedura una volta ancora incomprensibile ai più. Effetto dell’esito del referendum, di una rivolta contro il dirottamento destrorso del partito, della volontà di riscossa degli iscritti di provenienza comunista, del ritorno al meccanismo proporzionale che favorisce il proliferare di gruppi e gruppuscoli alla ricerca di scampoli di visibilità, ma soprattutto del crescente disgusto per la politica delle parole vuote. Per una gestione che si intuisce manovrata nell’ombra dai veri misteriosi depositari del potere.

La democrazia a volte degenera ancor prima di avere raggiunto la massa critica dell’impopolarità. È il caso della Turchia, che ha visto il presidente Recep Tayyit Erdogan approfittare di un tentativo di colpo di stato contro i suoi abusi di potere per renderli legali. Non si è limitato a una spietata repressione in nome dell’ordine, ma ha imposto una riforma costituzionale che gli attribuisce quegli stessi poteri assoluti il cui esercizio aveva provocato la reazione di buona parte della società. E così un regime assai vicino alla tirannide si serve del guscio vuoto della democrazia formale per rendersi presentabile, verificando il teorema di Crouch. Perché la democrazia in sé è considerata intoccabile, degna di quello che gli americani chiamano lip service, un ossequio formale, un riconoscimento tutt’altro che impegnativo.

La crisi della politica e la conseguente disaffezione mettono a dura prova chi studia i movimenti d’opinione. Ossessionati dalle masse enigmatiche dei riluttanti e degli indecisi che sfuggono alle loro analisi, i sondaggisti cercano di orientarsi fra le nuove coordinate proposte dalla sfiducia nei partiti. Ma a ben vedere anche loro fanno parte del sistema dei condizionamenti, anche loro contribuiscono alle tristi fortune della postdemocrazia. Nel deteriorato rapporto fra rappresentati e rappresentanti si smarrisce il nocciolo autentico della questione politica, la cura e il miglioramento della società. In un quadro che vede dissolversi la polarizzazione destra-sinistra sono in gioco valori e interessi, i motori della storia. Ma sempre più le opinioni pubbliche sentono i propri interessi ignorati dalle classi dirigenti. Quanto ai valori, non ci si raccapezzano più.