Si era detto sicuro di stravincere ma deve accontentarsi di registrare che per la prima volta, nella lunga storia dell’Emilia rossa, si è profilata la possibilità di un cambio di testimone. Il fatto è che gli elettori hanno respinto a larga maggioranza questa prospettiva. A sua parziale consolazione Matteo Salvini saluta la netta vittoria del centrodestra nell’altra regione chiamata al voto, la Calabria. Ma anche qui grava un’ombra sulle fortune leghiste: infatti il successo è dovuto principalmente agli alleati di Forza Italia. Il partito di Silvio Berlusconi, altrove in fase declinante, con alcune liste direttamente collegate è stato scelto da oltre un quarto degli elettori calabresi garantendo il successo alla candidata forzista Jole Santelli.
Ma soprattutto il grande sogno di ripetere a Bologna e dintorni il formidabile exploit delle elezioni europee del 2019 e dunque espugnare la roccaforte storica della sinistra, è rimasto nel cassetto. Il Partito democratico ha ripreso la posizione e il ruolo di prima forza politica dell’Emilia-Romagna che gli era stato strappato dalla Lega. I sondaggi prevedevano un risultato testa a testa e una lotta all’ultimo voto, e invece otto punti percentuali dividono il vincitore Stefano Bonaccini dalla sfidante Lucia Borgonzoni.
A nulla dunque sono serviti la martellante e tonitruante campagna elettorale di Salvini, il suo instancabile peregrinare fra le città e i villaggi emiliani e romagnoli, le sue effusioni nei confronti di salami e mortadelle in omaggio alla tradizione gastronomica locale, né certe sbavature caratteriali come quel suo aggrapparsi al citofono, davanti alle telecamere, per interpellare una famiglia tunisina della periferia di Bologna: mi risulta che voi spacciate droga, è vero? Né gli è servito violare sui social il silenzio elettorale d’obbligo alla vigilia del voto, e neppure gli ha portato fortuna quello striscione che troneggiava dietro di lui sul palco di Bibbiano: «Giù le mani dai bambini!».
Bibbiano è un piccolo paese nei pressi di Reggio amministrato dalla sinistra, dove è in corso un procedimento giudiziario per uno scandalo di adozioni forzate che chiama in causa coperture politiche. La gente del posto non ha gradito l’uso che della vicenda ha fatto Salvini: Bibbiano è fra i luoghi in cui la sua messe di voti è stata più scarsa.
Si ritiene che gli eccessi e le cadute di stile abbiano contribuito non poco alla sconfitta, la prima nella sua impetuosa arrampicata al potere. Infatti all’indomani del voto serpeggiava nella Lega un sordo malumore per il suo modo di gestire la sfida emiliana: stavolta ha esagerato, confidavano alcuni. Inoltre il capo leghista ha commesso lo stesso errore che costò il potere a un altro Matteo, l’ex presidente del consiglio Renzi. Proprio come Renzi in occasione del referendum costituzionale del dicembre 2016, Salvini ha trasformato questo voto regionale in un plebiscito sulla sua persona. Inoltre lo ha collegato a un progetto politico, la spallata al governo giallorosso di Giuseppe Conte, che non ha niente a che vedere con le tematiche regionali.
Mentre Salvini sbraitava i suoi slogan oscurando di fatto la sua stessa candidata, il presidente uscente Bonaccini enumerava con calma olimpica i successi della sua amministrazione in quella che è una fra le più floride regioni italiane. Contrapponendo il buon governo di Bologna alle mire salviniane sul mal governo di Roma. Poi ha fatto notare, a risultato acquisito, che «l’arroganza non paga». Il contrasto fra un’esagitata campagna elettorale e un approccio realisticamente pacato ha finito con il premiare quest’ultimo.
È balzato in primo piano, in questa vicenda politica, un attore non direttamente impegnato nel raccogliere voti ma non per questo meno decisivo. Ha influito profondamente sulle scelte degli elettori quel movimento delle sardine che è nato proprio in Emilia, e proprio per contrastare l’invadenza e le intemperanze verbali di Salvini. Non a caso la notte dello spoglio un raggiante Nicola Zingaretti, segretario del Pd, si è affrettato a ringraziare pubblicamente il nuovo protagonista del dibattito italiano. Quelle piazze affollate di giovani e meno giovani che chiedevano ai cittadini coinvolgimento e partecipazione, e ai contendenti serietà, compostezza, responsabilità, come una ventata di aria fresca hanno rivitalizzato una politica ormai ripiegata su se stessa, sui suoi vecchi schemi, sulle sue vuote retoriche.
È stata una scossa elettrica che ha avuto ragione dell’inerzia di tanti cittadini delusi dalla politica politicante, inducendo una massa di elettori fin qui riluttanti a depositare la scheda nell’urna. Di conseguenza l’affluenza al voto, che alle europee fu di poco superiore al trentacinque per cento, già evidentemente sollecitata dalla rumorosa sfida salviniana si è quasi raddoppiata avvicinandosi al settanta.
Questo voto penalizza dunque Salvini e le sue scomposte ambizioni, ma la vera vittima è il Movimento cinque stelle. Ormai da tempo in vistoso declino come testimoniano i sondaggi d’opinione, in Emilia-Romagna quello stesso partito grillino che il 4 marzo 2018 fu consacrato dagli elettori come prima forza politica nazionale è letteralmente crollato. L’esito del voto lo colloca al di sotto del cinque per cento. Le prime analisi dei flussi elettorali rivelano che oltre ai votanti recuperati dall’aumento della partecipazione sono stati proprio gli elettori delusi dei Cinquestelle a trasmigrare in massa verso i lidi di Bonaccini e del suo Pd. Nelle stanze romane del potere si prende atto dell’ennesimo paradosso: il partito che grazie allo spettacolare risultato del 2018 domina numericamente il parlamento (nonostante alcune defezioni di deputati e senatori grillini che hanno fiutato il vento sfavorevole), si trova nel consenso reale fortemente ridimensionato.
Questa situazione provoca due effetti. Il primo è l’opportunità, apertamente rivendicata dai dirigenti del Pd, di rinegoziare i patti di governo all’insegna di un riequilibrio che tenga conto dei mutati rapporti di forza. Zingaretti parla di rilancio e di «fase due» per l’esecutivo Conte, della necessità di mettere a punto una nuova agenda. Si vogliono ridiscutere alcuni temi scottanti, come la controversa normativa sulla prescrizione dei processi o gli altrettanto controversi decreti sicurezza a suo tempo voluti dall’allora ministro Salvini. Il secondo effetto è una richiesta, formulata dalla Lega e dai suoi alleati, al presidente della repubblica Sergio Mattarella. Il centrodestra invita il capo dello Stato a prendere atto che l’attuale maggioranza parlamentare non corrisponde più a quella che elezioni e sondaggi rivelano nel Paese: dunque sciolga le Camere portando i cittadini al voto e anticipando di tre anni la scadenza fisiologica del 2023.
Attento custode delle norme costituzionali, Mattarella è invece propenso a rispettarne la lettera, che prevede una durata di cinque anni del mandato parlamentare senza eccezioni legate al mutare del consenso. Ovviamente i Cinquestelle sono d’accordo con lui: in parlamento nulla è cambiato, dicono. È vero, ma molto è cambiato nel Paese: se come è plausibile l’attuale tendenza sarà confermata, la terza forza grillina finirà con il ridursi a un ruolo marginale. E così sull’orizzonte della politica italiana si staglia di nuovo, riveduto e corretto, il caro vecchio bipolarismo: da una parte il centrosinistra guidato dal Partito democratico, dall’altra il centrodestra a trazione leghista.