Una decina di anni fa, Facebook e Twitter promuovevano le speranze di libertà degli oppositori iraniani e delle primavere arabe. I social network erano lo strumento dell’ineluttabile avanzata della democrazia nei paesi dispotici mentre, nelle società aperte, erano un servizio fondamentale per aiutare le autorità a raccogliere e dare informazioni nei momenti di crisi e di emergenza. Dieci anni dopo, quegli stessi social network sono diventati un pericoloso veicolo di disinformazione, un’arma in mano alle forze antidemocratiche, l’espediente per reprimere il dissenso nei regimi autoritari e l’infrastruttura mediatica da chiudere repentinamente per evitare di alimentare la violenza etnica.
Il governo dello Sri Lanka, dopo la strage islamista della domenica di Pasqua, ha deciso di chiudere l’accesso ai social network perché nelle ore successive alle esplosioni erano circolati numerosi post violenti e notizie false soprattutto su Facebook e YouTube. Il governo ha calcolato che il rischio di maggiore disinformazione sarebbe stato superiore ai benefici di una migliore comunicazione che Facebook e Twitter avrebbero garantito. Twitter non ha risposto, Facebook ha impiegato più di un giorno per farlo, entrambi hanno dimostrato che l’incapacità di riconoscere il problema e la non volontà di trovare una mediazione tra il diritto alla libera espressione e la protezione pubblica, sono la loro grande debolezza e il tradimento della sbandierata missione globale di unire il mondo.
Prima dello Sri Lanka, c’è stato il precedente in Nuova Zelanda, il 15 marzo, quando il governo neozelandese ha chiesto ai social di non lasciar caricare agli utenti il video cruento della strage nelle moschee di Christchurch, ma anche in quel caso Facebook e Twitter e YouTube non hanno reagito in tempo e le immagini si sono diffuse a macchia d’olio, così come il delirante manifesto suprematista dell’assassino. Il governo, in quell’occasione, è stato costretto ad affidare d’urgenza a un regolatore nazionale il diritto di cancellare, in caso di emergenza, i contenuti pericolosi caricati sui social.
La premier neozelandese Jacinda Ardern e il presidente francese Emmanuel Macron hanno annunciato che il 15 maggio riuniranno a Parigi numerosi paesi e molte aziende digitali per trovare un modo condiviso che impedisca l’uso dei social media per promuovere terrorismo ed estremismo violento. «Le piattaforme digitali – ha detto la premier neozelandese – possono connettere le persone in molti modi positivi, e vogliamo che continuino a farlo, ma da troppo tempo è possibile usarle per incitare la violenza e l’estremismo e per diffondere immagini d’odio, come è successo a Christchurch. Questo deve cambiare».
In attesa che le cose cambino, è difficile stabilire se sia stato giusto o sbagliato bloccare temporaneamente l’accesso ai social media, ma la decisione delle autorità dello Sri Lanka dimostra che il problema esiste e svela quanto sia pericolosa l’architettura ingegneristica delle piattaforme digitali, progettata per creare dipendenza e rendere virali il rancore, le fake news e la disinformazione.
Questo è il tema centrale della nostra epoca, emerso purtroppo in seguito a stragi di innocenti e che in futuro costringerà altri governi a prendere la stessa decisione. Ma quando sarà passata l’emergenza, i social saranno nuovamente accessibili, il problema resterà, in particolare in quei paesi non di lingua inglese dove l’algoritmo e l’intervento umano faticano maggiormente a individuare e bloccare i messaggi d’odio.
Gli esperti americani sostengono che lo Sri Lanka è il punto di non ritorno in termini di come d’ora in avanti il mondo guarderà i social network. L’inerzia delle grandi piattaforme, non impegnate a trovare una soluzione, anche in termini di investimenti tecnologici e umani, fanno il resto. Ma sarebbe sbagliato pensare che la determinazione possa essere lasciata a loro, dovrà essere l’Occidente, in particolare l’America, a imporre alla Silicon Valley di cambiare modello, per questo è importante il summit di Parigi oltre che per contrastare le soluzioni autoritarie, come quelle cinesi o russe. La Gran Bretagna sta prendendo in considerazione di adottare alcune misure contro i social che ospitano disinformazione e l’Australia ha appena approvato una legge che impone sanzioni alle aziende che non rimuovono repentinamente i contenuti violenti. Questa è la direzione.
Ora comincia a essere tutto più chiaro, ma siamo ancora lontani da una soluzione mentre i danni alla società aperta sono evidenti e irreversibili, in particolare l’abbattimento dei corpi intermedi che per secoli hanno fatto da filtro tra il popolo e il potere. L’ingerenza esterna degli agenti del caos ha funzionato, come dimostrano il reclutamento e la radicalizzazione online degli estremismi religiosi, gli aiuti russi all’elezione di Donald Trump e alla vittoria della Brexit e chissà che cos’altro. Ora va trovato il modo di regolamentare Internet, come abbiamo fatto in passato con altre grandi innovazioni tecnologiche, come la bomba atomica, le ferrovie, l’energia e le telecomunicazioni, rompendo i monopoli e liberando la concorrenza. È possibile, ci sono molte proposte come quelle del guru della Silicon Valley Jaron Lanier o come quelle della senatrice Elizabeth Warren, candidata alle prossime presidenziali, senza dimenticare gli interventi legislativi dell’Unione europea e le stesse prime timide proposte di autoregolamentazione delle piattaforme digitali.