Siria, la miseria e lo spettro dell’Isis

Dopo dieci anni di guerra e uno di pandemia il Paese è al collasso mentre gli aiuti finanziari diminuiscono. Peggiorano le condizioni nel campo di Al hol che ospita 60 mila persone, per lo più familiari di fondamentalisti islamici
/ 05.04.2021
di Francesca Mannocchi

La comunità internazionale è tornata a riunirsi per la crisi siriana che raggiunge quest’anno il decimo anniversario dall’inizio del conflitto. Iniziata come una rivoluzione, un’ondata di protesta contro il regime di Bashar al Assad, si è trasformata in una guerra civile che ha causato dal 2011 quasi mezzo milione di morti e milioni di sfollati. È per sostenere questi ultimi e i Paesi che li ospitano che 50 Nazioni, 30 organizzazioni tra agenzie umanitarie e istituzioni finanziarie internazionali sono tornate a riunirsi a Bruxelles: troppo gravosi gli impegni e troppo incerto il destino per distrarsi. A rendere più complicate rispetto al passato la gestione degli aiuti e la stesura dei progetti è stato l’anno di crisi globale segnato dalla pandemia e dalla conseguente crisi economica che ha investito la Siria ma anche i Paesi donatori, i cui impegni finanziari erano già diminuiti prima del 2020 ma che corrono il rischio di precipitare come reazione alla Covid-19.

In Siria la crisi sanitaria ha esasperato la peggiore crisi economica dall’inizio del conflitto, il valore della moneta è precipitato mentre i prezzi dei beni primari, soprattutto i prodotti alimentari, sono saliti vertiginosamente, più del 200 per cento rispetto all’anno scorso per effetto dell’inflazione. Secondo l’Onu in Siria 9 persone su 10 vivono in povertà estrema e nella zona più segnata dal conflitto, la parte nord del Paese, 4 milioni di persone vivono in una situazione che non permette loro di soddisfare le esigenze alimentari. È ai 15 milioni di persone bisognose di supporto – il 20 per cento in più rispetto allo scorso anno – che la comunità internazionale è chiamata a dare risposte.

Le Nazioni unite chiedevano una decina di miliardi di euro per le questioni umanitarie più critiche: cibo, alloggio, scolarizzazione, progetti di lavoro. Quattro miliardi per gli aiuti interni e il resto per i 6 milioni di persone che vivono nei Paesi limitrofi: il Libano, la Giordania, l’Iraq e la Turchia (che da sola ospita 3 milioni e mezzo di siriani). È anche a queste comunità che hanno condiviso con i profughi siriani i servizi pubblici e il già difficile mercato del lavoro che è destinata una parte degli aiuti, perché l’Ue sa che, se viene meno la tenuta sociale delle Nazioni ospitanti, il rischio è una nuova ondata migratoria verso l’Europa come quella che ha visto protagonista la rotta balcanica nell’estate del 2015. Ecco perché da solo il Fondo fiduciario regionale dell’Ue ha disposto 2 miliardi e mezzo di euro tra il 2014 e il 2021.

«La situazione per i siriani nel loro Paese e nei Paesi vicini è peggiore di quanto non sia mai stata negli ultimi 9 anni», ha detto il capo degli affari umanitari dell’Onu Mark Lowcock. «C’è meno violenza ma più sofferenza». La conferenza di Bruxelles, però, non si è conclusa come sperato. I Paesi donatori hanno promesso aiuti per 6,5 miliardi di dollari, a fronte dei 10 richiesti. Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Ue per gli affari esteri, ha dichiarato: «Un decennio dopo che i siriani sono scesi pacificamente in piazza chiedendo libertà, giustizia e prospettive economiche, quelle richieste sono ancora insoddisfatte. Il Paese è nel caos».

Alla vigilia della Conferenza, il Movimento della Croce rossa e della Mezzaluna rossa siriana aveva diramato un comunicato per sensibilizzare i partecipanti al meeting di Bruxelles, invitandoli a essere conseguenti agli impegni presi e garantire i finanziamenti di cui il Paese ha bisogno. «I bisogni in Siria sono enormi – osservava – e i servizi umanitari rimangono un’ancora di salvezza. Nonostante le sfide alla sicurezza e le difficoltà politiche, dobbiamo continuare a trovare modi per riparare le infrastrutture distrutte e assicurarci che le persone abbiano accesso a servizi di base come l’acqua potabile, l’elettricità e i servizi sanitari: cliniche e ospedali». La Mezzaluna siriana e le delegazioni della Croce rossa hanno risposto ai bisogni degli sfollati dall’inizio del conflitto e tuttora assistono ogni mese quasi 5 milioni di persone. Il rischio però è che la violenza dell’anno pandemico spinga i Paesi donatori alla tutela delle comunità interne e li renda disattenti al resto.
Preoccupazione espressa da Francesco Rocca, presidente della Federazione internazionale delle società di Croce rossa e Mezzaluna rossa: «Negli ultimi 10 anni c’è stata un’enorme generosità e solidarietà nei confronti della Siria e dei Paesi vicini. Purtroppo oggi le donazioni stanno diminuendo, mentre la crisi umanitaria peggiora ogni giorno di più. I finanziamenti sono più che mai necessari per garantire che i siriani possano mantenere una vita dignitosa».

Non è solo la crisi economica, purtroppo, ad affliggere la Siria, ma anche quello che resta della sconfitta dello Stato islamico. Dopo la riconquista dell’ultima roccaforte siriana, il villaggio di Baghuz, nel 2019, migliaia di seguaci del gruppo fondamentalista si sono riversati nel campo di Al Hol, che da allora si è trasformato nella versione in scala minore del progetto dell’Isis. Oggi nel campo vivono 60 mila persone, 30 mila iracheni, 25 mila siriani e migliaia di altre nazionalità, per lo più familiari di foreign fighters arrivati in Siria e in Iraq a combattere nelle fila dell’Isis. L’Onu stima che il 93 per cento dei profughi di Al Hol è composto da donne e bambini.

Di recente un’operazione congiunta delle forze militari curde che controllano la zona (Sdf), coadiuvate dal supporto logistico delle forze della coalizione internazionale, ha tratto in arresto Abu Saad al Iraqi, un noto reclutatore ricercato da anni, e altre 8 persone. Cinquemila uomini delle forze di sicurezza sono entrati nel campo, sgominando cellule del gruppo terroristico, scovando 200 telefoni cellulari, laptop, hard disk pieni di informazioni sensibili e una scorta di uniformi militari che sarebbero servite ai sostenitori dell’Isis per camuffarsi e fuggire, forse seguendo piani folli di attentati. La situazione nel campo sta precipitando al punto che, solo negli ultimi tre mesi, all’interno sono state uccise quasi 50 persone, segno del deterioramento della situazione, della mancanza di progetti di deradicalizzazione ma anche della negligenza dell’Europa che ancora, a distanza di 3 anni, stenta a rimpatriare i familiari dei foreign fighters, soprattutto i bambini, abbandonati così a un destino di devianza e stigmatizzazione.