Sinai, terra di coltura del terrorismo

11 settembre egiziano – In attesa di capire bene che cosa sia successo e per mano di chi, la vittima principale dell’attacco alla moschea è al-Sisi che non ha portato il benessere e la pace che aveva promesso nella penisola
/ 04.12.2017
di Marcella Emiliani

Per la stampa israeliana si è trattato dell’«11 settembre dell’Egitto». Di certo l’attentato terroristico alla moschea al-Rawda nel villaggio di Bir al-Abed del 24 novembre scorso è stato il peggior massacro mai compiuto in Egitto: 305 morti, tra cui 27 bambini, e 128 feriti. Nella già tormentata storia della penisola del Sinai (Bir al-Abed dista non più di 40 km dal capoluogo della provincia del Sinai del Nord, Al-Arish), non si era mai visto niente del genere. Secondo la ricostruzione dei testimoni e delle fonti ufficiali, verso il tramonto la moschea è stata circondata da un commando di 25-30 uomini in tuta mimetica, arrivati su 5 fuoristrada, che – dopo aver sbarrato porte e finestre – hanno aperto il fuoco e lanciato granate sui fedeli che si apprestavano ad ascoltare il sermone del venerdì. Non bastasse la carneficina, hanno aspettato che i sopravvissuti uscissero per prenderli nuovamente di mira, mentre incendiavano 7 auto parcheggiate nei pressi per impedire o rallentare l’arrivo dei soccorsi. Poi si son dati alla fuga.

Si è trattato di un assalto militare in piena regola, ai danni di una moschea, nel giorno più sacro della settimana, il venerdì, all’ora della preghiera. Musulmani contro musulmani con una ferocia inaudita soprattutto perché molti dei fedeli convenuti erano sufi, generalmente definiti «i mistici dell’Islam». Ma i sufi sono soprattutto i seguaci più pacifici di Allah e la loro fede è quella più popolare tra la gente semplice di villaggi polverosi e decentrati come Bir al-Abed. Ci sono sufi tanto tra i sunniti quanto tra gli sciiti, quindi in ballo non c’è la frattura storica nel cuore dell’Islam. Diciamo invece che i puristi musulmani, come i wahhabiti dell’Arabia Saudita o i miliziani dell’Isis, considerano i sufi degli idolatri da colpire perché, come in ogni forma popolare dei tre monoteismi, spesso seguono la parola e l’insegnamento di sant’uomini di cui, una volta morti, venerano le tombe.

Massacrare i sufi è dunque un vero atto di «codardia» come ha sottolineato il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, generale che ha appeso la divisa al chiodo. E per una volta gli si può anche dare ragione. In tutti i casi, qualsiasi atto di terrorismo sui civili è vile e codardo e quello del 24 novembre ancora di più perché segna una svolta pericolosissima nella già sanguinosa strategia dei numerosi gruppi salafiti-radicali della penisola del Sinai. Prima del 24 novembre nel loro mirino c’erano essenzialmente uomini in divisa, militari e poliziotti, uccisi a centinaia. Ora ci sono i civili più inermi.

È perlomeno dalla caduta del regime di Mubarak nel 2011 che la penisola è diventata una sorta di Far West egiziano. Le tribù beduine, sfruttando le convulsioni seguite alle primavere non solo in Egitto, ma anche in Libia, nonché il totale isolamento della Striscia Gaza, si sono date ancor più di prima al contrabbando di armi, viveri, medicinali. Ma soprattutto il Sinai è diventato il deserto «di coltura» dei terrorismi residuali.

È terrorismo residuale quello di al-Qaeda nella penisola del Sinai (Aqps) che ha raggruppato altre formazioni terroristiche locali come Jund-al Islam, Ajnad Misr, Ansar al-Sharia, Jamaat al-Mourabitoun, al-Jama’a al Islamiyya, impegnate dal 2013 in una lotta all’ultimo sangue coi militari e i poliziotti egiziani dopo che il 3 luglio 2013 il colpo di Stato dell’allora generale al-Sisi aveva spodestato Muhammed Morsi dalla presidenza e messo fuori legge la Fratellanza musulmana il cui Partito Libertà e Giustizia aveva vinto le prime libere elezioni nel 2012. Dal 2014, poi, si erano impegnate in una lotta intra-jihadista con gli affiliati egiziani dell’Isis. Il 4 novembre 2014 infatti i miliziani di Ansar Bayt al-Maqdis (Sostenitori di Gerusalemme) avevano prestato giuramento di fedeltà allo Stato islamico ribattezzando la loro organizzazione Wilayat Sinai (Ws, Provincia islamica del Sinai).

La lotta tra Wilayat Sinai e la micro galassia sanguinaria afferente all’Aqps si è fatta ancor più feroce quest’anno quando nella penisola sono arrivati anche foreign fighters e terroristi dell’Isis reduci dalla perdita delle loro capitali in Iraq (Mosul) e in Siria (Raqqa) riconquistate dalle forze governative locali. Non più tardi dell’11 novembre scorso ad esempio, Jund al-Islam (Armata dell’Islam, qaedista) ha rivendicato un attacco contro jihadisti dell’Isis-Ws avvenuto in ottobre in una località non meglio precisata della penisola. Interessante la motivazione: «per aver commesso crimini contro i musulmani nel Sinai».

Sanguinari per sanguinari, proprio in questa motivazione sta la differenza tra al-Qaeda e Isis non solo nella penisola del Sinai, ma in tutto il Medio Oriente e l’Asia. Al-Qaeda, la casa madre del terrorismo islamico del Terzo Millennio, ha imparato che colpire alla cieca i musulmani significa solo alienarsi il consenso della popolazione, e anche per questo ha preferito scagliarsi innanzitutto contro «i nemici esterni» (leggi minoranze cristiane in terra islamica, Israele, Stati Uniti e Occidente «crociato» in generale), oppure i «servi dei regimi oppressori e apostati in terra musulmana» cioè i militari e le forze di sicurezza in paesi islamici.

L’Isis, invece, non ha mai esitato a fare terra bruciata ovunque e contro tutti pur di affermare il suo disegno di potenza e dominio nel nome di un presunto Califfato. E all’indomani dell’attentato alla moschea di Bir al-Abed mentre la stampa internazionale elencava le condoglianze giunte all’Egitto e al presidente al-Sisi dai governi di mezzo mondo e dal Papa, arrivava anche la condanna della strage del 24 novembre da parte del Grande Imam della moschea-università di al-Azhar al Cairo, Muhammad Ahmad al-Tayyib, ma soprattutto anche quelle di al-Qaeda, Jund al-Islam ed altri suoi affiliati locali. Stando all’Agence France Press persino simpatizzanti dell’Isis hanno manifestato tutto il loro sdegno sui blog, dopo che via Telegram era circolata una registrazione audio in cui un affiliato del defunto Califfato si vantava dell’attacco terroristico alla moschea.

Ma è stato davvero un commando dell’Isis a compiere l’attacco? Il modus operandi suggerirebbe di sì. Inoltre i sopravvissuti al massacro hanno testimoniano che i jihadisti sventolavano una bandiera nera, tipica dell’Isis. Ma l’Isis non ha diffuso alcuna rivendicazione, per lo meno fino al 29 novembre. E qui gli interrogativi si moltiplicano: è davvero l’Isis l’autore del massacro o una nuova formazione di cui non si conosce ancora l’esistenza? Oppure il responsabile è il fu Califfato ma rendendosi conto di essersi spinto troppo oltre, ora tace? Potremmo continuare a farci domande all’infinito. Lo stesso governo egiziano non ha ancora puntato il dito contro nessuna sigla in particolare. Ha invece reagito immediatamente, la sera stessa del massacro, andando a bombardare tutta la fascia litoranea settentrionale del Sinai ed affermando poi di aver ucciso 11 terroristi e aver «polverizzato» i loro fuoristrada.

In attesa di capire meglio cosa sia successo, e con tutta la pietà per i morti e i feriti di Bir al-Abed, la vittima politica principale dell’attacco alla moschea è stato al-Sisi. Quando ha attuato il colpo di Stato nel 2013 ha solennemente giurato di portare il benessere diffuso in Egitto e di sradicare la malapianta del terrorismo islamico nella penisola del Sinai. Nonostante gli aiuti internazionali e americani in particolare (un miliardo di dollari all’anno) il paese è ancora preda di povertà e disoccupazione. Quanto al terrorismo islamico, non sono bastati i 40 battaglioni di fanteria e i corpi corazzati stanziati nel Sinai per averne ragione. Evidentemente affrontare la minaccia terroristica nella penisola soltanto con l’approccio militare più duro non paga e in più aliena al regime del Cairo anche la popolazione locale che oltre ad essere economicamente emarginata, si ritrova schiacciata tra forze di sicurezza brutali e macellai jihadisti. L’unico risultato sicuro di quattro inutili anni di stato d’emergenza e lotta contro il terrorismo è il consolidamento della dittatura di al-Sisi reso possibile anche dalla retorica della lotta al terrorismo medesimo. Un copione che conosciamo molto bene: la Siria e la Turchia, tra gli altri, insegnano.

Ma le speranze che al-Sisi cambi direzione sono poche. L’anno prossimo si svolgeranno le elezioni presidenziali e la svolta impressa dal massacro di Bir al-Abed alla strategia terroristica (con obiettivi civili, non più solo militari) rischia di diventare il tema centrale della sua campagna elettorale e incarognirlo ancora di più nella deriva securitaria-dittatoriale che ha già preso. E tanto per sostenerlo è intervenuto il suo buon amico Mohammed bin Salman, l’erede al trono dell’Arabia Saudita, che il 26 novembre ha lanciato una nuova coalizione per combattere «in maniera implacabile» tutte le organizzazioni terroristiche fino alla loro«sparizione totale sulla terra». Ne fanno parte 40 paesi musulmani sunniti di Medio Oriente, Asia e Africa. Assenti ovviamente l’Iran, la Siria e l’Iraq.