Prima di avviare il lungo negoziato diplomatico per il ritorno dell’isola alla Repubblica popolare, nel 1982 il leader cinese Deng Xiaoping aveva detto al premier britannico Margaret Thatcher: «Potrei entrare a Hong Kong e prendermela con la forza in un solo pomeriggio». La Lady di Ferro gli rispose: «E io non potrei impedirglielo, ma il mondo intero vedrebbe il vero volto della Cina». Questo scambio di battute fu raccontato dalla Thatcher nelle sue memorie. Colui che dirigeva la delegazione diplomatica cinese, Lu Ping, ha rivelato quanto quel dialogo fosse veritiero. In segreto Deng aveva dato ordine all’Esercito Popolare di Liberazione di preparare i piani di un’invasione. L’opzione militare fu presa seriamente in considerazione dal regime di Pechino anche se in parallelo trattava con gli inglesi una restituzione concordata. Alla fine però lo stesso leader comunista che nel 1989 non esitò a schiacciare nel sangue il movimento di Piazza Tienanmen, con Hong Kong preferì usare i guanti di velluto.
Una delle mie numerose visite a Hong Kong, quando ero corrispondente a Pechino, avvenne nel decennale del passaggio dal Regno Unito alla Cina, cioè nell’estate 2007. Scrivevo allora: «Per la Cina quest’isola si rivelò negli anni un giocattolo prezioso. Insieme con le sue libertà, con il rispetto dei diritti umani e del dissenso, Hong Kong custodisce un sistema giudiziario indipendente, una certezza delle regole che la rendono credibile al mondo intero come piazza finanziaria. Le migliori multinazionali cinesi, se vogliono acquisire la fiducia dei grandi fondi pensione americani e attirare i loro investimenti, si quotano alla Borsa di Hong Kong anziché a Shanghai. È per questo che nei dieci anni dopo il fatidico ammainabandiera dell’Union Jack il regime cinese si è mostrato così fedele ai patti, conservando "due sistemi" di regole anche ora che l’ex colonia britannica fa parte di una sola nazione».
Ma è ancora vero oggi? Hong Kong non è cambiata poi tanto, nel senso che il livello di libertà e diritti umani, la certezza del diritto, vi rimangono molto superiori rispetto alla madrepatria cinese. È cambiato però il resto del mondo: la forza della Cina e la sua consapevolezza di sé sotto Xi Jinping, l’atteggiamento dell’America e dell’Occidente. Fra le tante proteste che hanno agitato Hong Kong in questi anni – nel 2003, nel 2012, nel 2014 – quella che è esplosa adesso è una delle più massicce. Si calcola che siano scesi in piazza un milione di cittadini: uno ogni sette residenti dell’isola. Potrebbe però essere una delle più disperate. Nel senso che a Pechino c’è un regime più determinato che mai a reprimerla. Mentre l’atteggiamento dell’Occidente è ancora più ambiguo che in passato.
Con il tipico riflesso dei regimi autoritari, e un copione collaudato dai tempi delle «rivoluzioni arancioni», il complotto americano è una comoda teoria anche per spiegare la protesta di Hong Kong. I media governativi di Pechino alludono alla mano di Washington dietro la mobilitazione di massa. Sarebbe bello: se soltanto fosse vero. Al contrario, quel che accade a Hong Kong in questi giorni è drammatico anche per il silenzio di Donald Trump e di tutto l’Occidente. Negli ultimi vent’anni lo status di Hong Kong veniva considerato come un test per la Cina. Il rispetto dei «privilegi» (leggi: libertà di espressione, Stato di diritto, tribunali indipendenti, habeas corpus) concordati nel 1997 al momento del passaggio dell’isola dal Regno Unito alla Cina, è sempre stato osservato con vigilanza da Washington, Londra, e dalle altre capitali europee. Dalla capacità di Pechino di mantenere quelle promesse, e di seguire la massima «una nazione, due sistemi» (cioè tollerare un sistema politico e giuridico diverso a Hong Kong, pur essendo quel territorio tornato a far parte della Grande Cina) veniva misurata l’affidabilità dei dirigenti comunisti come interlocutori in un ordine mondiale basato su regole.
In effetti Hong Kong è rimasta a lungo una felice eccezione, un’oasi dove i giornali e i cittadini possono criticare il proprio governo locale o quello nazionale senza temere di finire in carcere. Dietro il rispetto dei diritti c’era un calcolo: conveniva alla Cina mantenere lo status speciale di Hong Kong per il suo ruolo di piazza finanziaria globale, una piattaforma del business con ricadute positive sulla madrepatria. Con Xi la musica è cambiata. Già da qualche anno si fanno più frequenti le incursioni della polizia cinese contro i dissidenti di Hong Kong. Alcuni sono stati letteralmente rapiti, scomparsi a lungo, per poi riapparire nelle mani delle autorità cinesi e magari pronunciare «auto-denunce» nello stile staliniano. La riforma della legge sull’estradizione renderebbe il compito ancora più facile per la polizia cinese: non avrebbe più bisogno di organizzare rapimenti, i dissidenti se li farebbe consegnare dalle autorità di Hong Kong. È questo il timore che ha scatenato le proteste di piazza.
Trump si prepara a incontrare Xi al G20 di Osaka in un clima di tensione, ma ha ridotto tutto il rapporto bilaterale alla dimensione economica. Mentre il vero punto debole della Cina, in particolare in quell’area del mondo ancora affollata di liberaldemocrazie alleate degli Usa (da Taiwan al Giappone alla Corea del Sud) è proprio la natura del suo regime. Aver cancellato la questione dei diritti umani e delle libertà dalla sfera delle nostre «politiche cinesi» indebolisce l’Occidente intero. Compresa quell’Europa che sembra solo interessata alle Nuove Vie della Seta, sempre misurando i rapporti con la Cina nell’ottica mercantilista.
Nell’estate del 2007, nel mio reportage sui dieci anni del «ritorno all’ovile», scrivevo: «Questo decennio non è stato facile per Hong Kong. Al contrario, la cronistoria di questo periodo è una serie di incidenti di percorso, di shock e di paure. Sono passate poche ore da quel primo luglio 1997, il Royal Yacht Britannia è appena salpato dal porto con a bordo il principe Carlo e l’ultimo governatore Chris Patten, quando all’orizzonte si profila una turbolenza drammatica. Il giorno dopo il passaggio delle consegne, i banchieri di Hong Kong apprendono che la Thailandia dissanguata dalla fuga dei capitali svaluta la sua moneta».
È il detonatore iniziale della grande crisi asiatica. Uno dopo l’altro nell’autunno del ’97 i «dragoni» vengono colpiti dalle ondate della speculazione internazionale, l’effetto domino abbatte le monete dell’area come tanti birilli. La banca centrale di Hong Kong si difende con la forza della disperazione, alzando i tassi d’interesse fino al 18,5% pur di mantenere il dollaro locale agganciato a quello americano. Non riesce a impedire una caduta del 60% della Borsa, il crollo del mercato immobiliare, la disoccupazione triplicata, una deflazione che durerà tre anni. Segno premonitore: l’unica àncora di stabilità in mezzo al panico del sud-est asiatico è Pechino, che nel ’97 resiste contro la svalutazione e impedisce un ulteriore allargamento della crisi.
Poi è la volta dell’11 settembre 2001, con la lunga paralisi del trasporto aereo particolarmente deleteria per Hong Kong, città turistica e «hub» aeroportuale dell’Estremo Oriente. Infine il colpo di grazia: l’epidemìa della Sars nel 2003, regalo avvelenato della Repubblica popolare visto che l’incubazione è avvenuta nel Guangdong ed è stata nascosta dall’omertà delle autorità sanitarie locali. Ancora una volta per Hong Kong il colpo è più duro: l’isola vive di commercio e di congressi, per mesi il suo nuovissimo aeroporto intercontinentale è deserto (65% del traffico è sparito), gli hotel hanno il 90% delle camere vuote, gli shopping mall sono abbandonati dalla clientela internazionale. È a quel punto che il regime cinese capisce di dover lanciare una ciambella di salvataggio. Da Pechino arrivano aiuti insperati: il governo liberalizza il turismo dalla madrepatria, offre sgravi generosi per il commercio bilaterale (l’isola è rimasta infatti una regione amministrativa autonoma).
Appena superato il terrore della Sars, l’affluenza dei nuovi ricchi cinesi esplode. Hong Kong è invasa da tutte le parti: il ceto medioalto di Pechino e Shanghai viene per i weekend di shopping, i più facoltosi investono anche nel mercato immobiliare; gli occidentali puntano sulla Borsa dell’isola sperando di raccogliere lì i frutti dell’impetuosa ascesa della nuova Cina capitalista. In effetti sono i tycoon del capitalismo i veri interlocutori del leader di Pechino. È nell’aristocrazia del denaro che vengono reclutati gli 800 «grandi elettori», responsabili della nomina del chief executive, come si definisce il governatore locale. Manovrando gli interessi economici il regime cinese ha la certezza che l’amministrazione di Hong Kong resti docile. In quanto al Parlamento locale, solo la metà dei rappresentanti viene eletta dai cittadini, il rimanente è selezionato dalle corporazioni degli affari.
Il primo luglio 2003 scesero in piazza cinquecentomila persone per chiedere una vera riforma politica. Pechino reagì con la diffidenza e la demonizzazione. Hu Jintao dichiarò che a Hong Kong erano al lavoro «forze anti-patriottiche, anti-cinesi, manovrate dall’estero, per fare dell’isola una base sovversiva contro l’intera nazione». Il regime ebbe il timore che da Hong Kong potesse partire una «rivoluzione arancione» come quelle che stavano agitando l’Ucraina e la Georgia. Fu licenziato il chief executive Tung Chee Hwa e sostituito con un nuovo governatore formato nel civil service britannico, Donald Tsang, altrettanto obbediente a Pechino. Oggi in quella posizione c’è una donna, Carrie Lam, al potere da due anni: sempre designata e controllata da Pechino. È lei che ha presentato nel Parlamento locale la proposta di legge sull’estradizione; è lei che gestisce con pugno di ferro la risposta della polizia alle manifestazioni.
Le Cassandre che temevano la fine dell’anomalìa di Hong Kong finora sono state smentite. Ma per quanto tempo? Ha avuto torto chi si illudeva su un «contagio democratico» dall’isola verso il continente.