Vladimir Putin è stato l’ultimo leader internazionale a mandare le sue congratulazioni per la vittoria a Joe Biden, quasi fuori tempo massimo, in un gesto che voleva essere uno sgarbo e che inaugura una stagione diplomatica di estrema tensione tra Mosca e Wasghington. La Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA), l’agenzia americana per la sicurezza informatica, ha rivelato pochi giorni fa un attacco di hacker senza precedenti per portata e durata, che il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha dichiarato «chiaramente colpa dei russi». E anche se Donald Trump è apparso più scettico, ipotizzando un’interferenza anche della Cina, numerosi esperti statunitensi sono convinti che a infiltrarsi in decine di migliaia di computer degli Stati Uniti siano stati gli hacker dell’unità russa «Cozy Bear», che avevano già lasciato segni nelle invasioni precedenti del cyberspazio americano, e che sono legati all’SVR, lo spionaggio estero del Cremlino.
Un attacco informatico che potrebbe rivelarsi senza precedenti per gravità: tra le reti colpite, quelle dei Ministeri del tesoro, dell’energia e del commercio degli Stati Uniti, e – forse il bersaglio più inquietante – i laboratori nucleari di Los Alamos, che controllano l’arsenale atomico americano. Ma ci sono altri 18 mila enti e società infette, che potrebbero rivelarsi potenzialmente molte di più: «Ci vuole tempo per capire, mitigare gli effetti e identificare gli autori di attacchi di questa portata», ha spiegato alla Cbs Neil Walsh, esperto di cybersicurezza per l’Ufficio sulle droghe e la criminalità dell’Onu. Sembra che gli hacker russi abbiano usato tecnologie molto più sofisticate rispetto alle irruzioni nei server del partito democratico del 2016, il famigerato RussiaGate, e che il loro obiettivo sia stato raccogliere i dati più disparati. Inoltre, la breccia informatica è stata aperta in software molto diffusi, e potrebbe potenzialmente aver fatto propagare l’«infezione».
Resta da capire se gli obiettivi del Cremlino, nell’ordinare questo ennesimo attacco informatico, fossero stati di colpire l’America, o soltanto di mostrare agli americani quanto siano vulnerabili. Anche il timing della rivelazione – l’attacco è iniziato a marzo, e potrebbe essere tuttora in corso, almeno in alcuni dei suoi frangenti – in concomitanza con il tormentato avvicendamento alla Casa Bianca – potrebbe essere un segnale. Certamente Mosca si aspetta dalla presidenza Biden una recrudescenza di sanzioni e iniziative che il Cremlino qualificherebbe come «antirusse».
L’amministrazione Trump non ha lanciato sanzioni sull’avvelenamento di Alexey Navalny, consegnando incredibilmente all’Europa il primato di sfidare Mosca su questo terreno, ma è molto probabile che Biden vorrà recuperare, anche perché la sua missione principale nei prossimi mesi sarà quella di mostrare che l’America sta tornando sugli scacchieri internazionali, riprendendo il suo ruolo di paladina delle libertà globali. La diplomazia russa perlomeno si sta preparando a tempi duri, anche se in realtà è con Donald Trump che i rapporti bilaterali sono «diventati pessimi come mai prima», come ha detto qualche mese fa il presidente russo. Trump però continuava a venire visto da molti attori della politica moscovita come un potenziale allea-
to imbrigliato però dal «deep state» di Washington, mentre Biden – che già nell’amministrazione di Barack Obama si era distinto come sostenitore della linea più dura nei confronti del Cremlino – viene ritenuto un nemico irriducibile.
L’attacco degli hacker quindi potrebbe essere la prima battaglia di una nuova guerra oppure un ammonimento di quello che Biden potrebbe trovarsi a dover combattere, una sorta di ricatto preventivo. Mosca ha dei dossier che richiedono una soluzione urgente con Washington: a febbraio scade l’ultimo dei trattati sugli armamenti strategici ancora in vigore, il New Start, e Trump ha rifiutato una proroga senza condizioni proposta in extremis da Putin alla vigilia delle elezioni. Questo significa che almeno in teoria tra un mese tutta la cornice del disarmo strategico che ha chiuso la Guerra fredda, con il sistema dei rispettivi controlli tra le due potenze nucleari, verrebbe archiviato, e il rinnovo dell’accordo potrebbe richiedere un lungo negoziato. I trattati sull’arsenale nucleare sono ormai da anni anche quell’unico momento in cui Mosca riesce a posizionarsi, almeno a livello di immagine, al pari degli Usa, obiettivo strategico di Putin che rivendica da sempre un «trattamento alla pari» dall’Occidente.
Un trattamento che però il Cremlino non conta più di ottenere, almeno a giudicare da una nuova ondata di attacchi verbali lanciati Oltreoceano a fine anno. Nella sua conferenza stampa annuale Putin ha rivendicato la superiorità morale della sua Russia nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente. Ma soprattutto non ha usato mezzi termini nell’affermare che il suo oppositore principale, Alexey Navalny, sia «legato ai servizi segreti americani».
Le rivelazioni dell’inchiesta dei giornalisti di Bellingcat sull’avvelenamento di Navalny, organizzato da agenti del servizio segreto interno, Fsb, l’erede dell’ex Kgb, hanno messo in grande difficoltà il Cremlino. Un’indagine con nomi, cognomi e indirizzi degli agenti che hanno pedinato per anni l’oppositore principale di Putin, alla quale Navalny ha aggiunto il video di un’incredibile telefonata in cui, spacciandosi per un funzionario dell’intelligence, interroga uno dei suoi avvelenatori fino a costringerlo a confessare che l’agente tossico Novichok era stato spalmato nelle mutande dell’oppositore. Putin – senza smentire direttamente le rivelazioni – ha reagito dichiarando ufficialmente Navalny un agente degli Usa, il che rende più complicato il suo rientro in Russia dopo la conclusione delle cure in Germania. E Biden è avvertito: qualunque sua iniziativa per costringere Putin a rispettare la democrazia, e l’opposizione, verrà bollata come un’ingerenza della Cia, e quindi Mosca si sentirà anche giustificata a proseguire la guerra delle spie, e degli hacker.