Ed è subito evento: l’abuso di una definizione, applicata a mostre, spesso insignificanti e forzate, sta animando, da qualche mese, una polemica, in particolare in Italia, e con effetti anche in un Ticino, toccato dal fenomeno del fare tanto per fare. Ma, ovviamente, non mancano le esposizioni che la qualifica di evento la meritano, a pieno titolo, sul piano culturale, e non soltanto. Ne è stato un esempio da manuale la mostra, appena conclusa al British Museum, dove il tema «Sciti, guerrieri dell’antica Siberia», proposto in termini allargati, rappresentava un’esperienza da vivere in tanti modi. Non soltanto, come rievocazione storica, fine a se stessa, ma come un viaggio, tutt’altro che concluso, nel tempo e nello spazio, proposto a ogni visitatore.
È, insomma, un valore aggiunto del museo contemporaneo, dove la scenografia creata dai mezzi tecnologici, rende accessibile ciò che, un tempo, era riservato agli addetti ai lavori. E sollecita sensazioni, curiosità, riflessioni. Più che mai, in questo caso, dove compare un nome di per sé evocatore, la Siberia. Immensa (13 milioni di kmq), inospitale, crudele, e, in pari tempo, ricca di risorse naturali, di paesaggi intatti, carica di una storia ancora da decifrare, fra persistenti tracce di religiosità e superstizioni antiche e testimonianze politiche recenti. In un mondo tutto conosciuto e percorribile, sembra, ma forse è illusorio, un’isola al riparo dall’omologazione. Fatto sta che, al British Museum, gli Sciti possono persino diventare un pretesto. Qui, le vicende di un popolo, vissuto fra il 900 e 200 a.C., affiorate dagli scavi archeologici, si affiancano al destino di un territorio, a sua volta in cerca della propria identità.
Nei nuovi spazi di questa mirabile istituzione britannica sempre in fieri, il parallelismo è evidente. Le armi, i gioielli, gli utensili, i capi d’abbigliamento, le sepolture che attestano l’alto grado di sviluppo di un popolo nomade e stanziale, s’inseriscono nella cornice spettacolare di paesaggi siberiani ricreati. Sembra di esserci, davvero. Ci s’inoltra fra boschi di betulle, praterie, dove risuona lo scalpiccio di cavalli, ci si trova al cospetto di laghi, colline, montagne innevate, seguendo le tracce di guerrieri, di artigiani, di artisti che, secondo Erodoto, ebbero contatti con le colonie greche sulle coste del Mar Nero, in Anatolia. Ipotesi confermata. Fu, anche la loro, una fatale alternanza di vittorie e sconfitte che rimane il filo conduttore della storia. Conclusa, per gli Sciti, nel 1581-82, quando, guidati da Ivan il Terribile, i russi conquistarono la Siberia meridionale segnandone la fine dell’autonomia.
Con Pietro il Grande, precursore della Russia moderna, si apre l’era delle spedizioni scientifiche, destinate a definire la geografia e la topografia della regione. Nel dicembre 1724, il navigatore olandese Vitus Bering riceve dallo zar l’incarico di «scoprire dov’è la separazione fra Asia e America», cioè fra Siberia e Alaska. Mentre dagli scavi dei «kurgans», promontori che coprono tombe, emergono i corpi di personaggi, presumibilmente illustri, circondati da oggetti di sorprendente splendore. Conservati grazie a un naturale processo d’ibernazione: le infiltrazioni d’acqua, poi gelate, hanno preservato armi, corazze, calderoni, anfore, pettini, fibbie, gioielli spesso d’oro. È un vero e proprio tesoro, che incuriosisce gli storici e attira i collezionisti. Ma c’è chi fiuta l’affare. Un certo Demidov riesce a presentare un buon numero di reperti allo zar che, nel 1715, emana un editto: tutto va portato a San Pietroburgo. Qui, saranno esposti nella «Kunstkammer» all’Hermitage, che sarà il primo museo nazionale dell’impero. Questa consacrazione ufficiale contribuirà a intensificare la ricerca sugli Sciti, antenati di cui la Russia deve andar fiera, e, a promuovere l’archeologia, in competizione con i tedeschi e gli inglesi che, con successo, stavano esplorando il mondo sotterraneo. Nei confronti della Siberia, cresce un’attenzione d’ordine culturale e commerciale. Un paese, dai confini ancora incerti, cela risorse da sfruttare: miniere, foreste e una fauna, fra cui zibellini dal pregiatissimo pelo.
Nel 1690, l’olandese Nicola Witsen pubblica la prima mappa della Siberia e, lo stesso anno, il prete Andrei Lytzlov scrive una relazione sulle origini della regione, partendo dagli Sciiti: di cui si ritrovano tracce a largo raggio, da nord a sud. In Crimea, incuriosiscono Caterina II, viaggiatrice ante litteram. Si accumulano, via via, ritrovamenti che confluiscono nel patrimonio dell’Hermitage, avviato a diventare un museo di prestigio mondiale. Ciò non basterà a proteggerlo dal furore rivoluzionario: nell’ottobre 1917, l’edificio subisce l’assalto d’insorti fuori controllo. E, adesso, niente sarà come prima. La svolta storica incide sulle sorti della Siberia, esposta a reazioni contrastanti. Nasce un comitato per la protezione delle 26 etnie, native o insediate nella regione: decreta l’esonero dall’obbligo militare e il rispetto del nomadismo. Durerà poco.
Subentra, negli anni 30, la collettivizzazione comunista che impone il sedentarismo, espropria i possessori di greggi, deporta in campi di rieducazione preti e sciamani, promuove l’integrazione fra immigrati russi e popolazioni locali, introduce l’insegnamento in lingua russa. Anche l’archeologia si politicizza, con risvolti grotteschi. Cambia nome, diventa «Storia marxista del materiale culturale» e privilegia le sepolture della gente comune rispetto a quelle «regali», ovviamente più ricche. Vieta la collaborazione con colleghi stranieri. Persino il dibattito sull’origine degli Sciti, medio-orientale o invece slava, diventa rischioso. Stalin taglia corto: lo studioso, accusato di «empirismo» o «classificazione borghese», finisce in galera. O spedito in Siberia, terra d’esilio forzato per definizione.
È, infatti, la nefasta etichetta che spetta a quest’appendice dell’impero, prima zarista, poi sovietico, che accoglie, suo malgrado, le vittime di regimi sempre repressivi. Che, qui, riescono persino a crearsi un loro spazio, grazie al sostegno delle popolazioni locali. Una sfida, insomma, agli ordini impartiti da San Pietroburgo e da Mosca, e un indizio d’indipendentismo. Con ciò, la grande madre patria fa valere il proprio dominio, attraverso un incessante processo di russificazione.
Lungo questo percorso, la costruzione della ferrovia transiberiana rappresenta una tappa addirittura simbolica, giustamente illustrata nella mostra londinese. Nel 1891, lo zar Nicola inaugura il progetto: collegare San Pietroburgo con Vladivostock, coprendo la distanza di 5900 miglia. I lavori procedono anche sfruttando la manodopera degli esuli politici. Il 16 agosto 1898, il primo treno arriva a Irkutsk, la «Parigi della Siberia». Nel 1900, si apre la tratta lungo le rive del lago Baikal fino alla frontiera cinese. Sedici anni dopo, la ferrovia tocca le sponde del Pacifico.
A questo punto, con la Transiberiana si apre un nuovo capitolo. Questo treno leggendario diventò il motore del turismo. Attirando, già nell’era sovietica, quando la cortina di ferro cominciava a sgretolarsi sotto l’urto della glasnost, i primi visitatori occidentali. Sapeva un po’ d’avventura quel viaggio che, condivisi nell’ottobre del 1983, con un gruppo di turisti svizzeri, fra cui alcuni membri del Partito del lavoro, messi duramente alla prova, nell’impatto con il socialismo reale. Ma, com’è di regola nel turismo, il nostro itinerario intendeva mostrarci il meglio. Certo la Transiberiana procedeva lentissima, a scossoni, con lunghe fermate in stazioni, dove sui marciapiedi, i fornelletti cuocevano zuppe e polpette per i viaggiatori. A noi, in prima classe, spettava il vagone ristorante, riservato agli stranieri.
Poi, via, verso, Irkutsk, città industriale appena sfiorata, per goderci la vicina Akademgorodok, «il cervello della Russia», dove si progettava il prestigio tecnologico del Paese: affidato a scienziati, cui spetta un ambiente esclusivo. Strutture ultramoderne, collocate nella cosiddetta Valle dorata, sulle sponde di sabbia dorata dell’Ob. La sensazione di trovarci in una bolla, separati dalla realtà, ci accompagna fino a Irkutsk, che offre una facciata elegante e mondana. Sulle sponde del Baikal, un villaggio di pescatori, con casette rosa e azzurre, tendine di pizzo, giardini fioriti, oche libere nelle strade, offre l’immagine di un idillio rurale. Lo completa la chiesetta di legno, dove un sacerdote ortodosso decanta il clima di fede, liberamente espressa, che lo circonda.
Sarà poi, il libro-inchiesta In Siberia di Colin Thubron, fra i primi giornalisti occidentali a varcare la frontiera dopo la caduta del muro, a rivelarmi la realtà vera. Altro che Valle dorata per gli scienziati che, invece, sognano di andarsene. Lo sviluppo industriale va a vantaggio dei nuovi capitalisti di Mosca. Cresce la voglia d’indipendenza. Qui, conclude l’autore, ci si sente sempre in «un altrove». Qui, per sfruttare le ricchezze del sottosuolo si costringe una popolazione di addetti ai lavori a vivere a Norilsk, città fantasma, all’estremo nord, permafrost perenne, neppure un filo d’erba, e la neve che diventa rossa o nera per l’inquinamento. Una realtà assurda, documentata, in questi giorni, sulla «Neue Zürcher Zeitung» dal fotografo Beat Schweizer.