Natale-tregua o Natale-lockdown? Il ricordo corre a un episodio di oltre un secolo fa. È il 25 dicembre del 1914, primo inverno di guerra, quando fra le trincee del fronte occidentale esplode improvvisa e spontanea una fragile pace. I soldati francesi e tedeschi depongono momentaneamente le armi, escono dalle loro tane, cantano e brindano insieme, si scambiano doni. Weihnachtsfrieden la chiameranno da una parte, trêve de Noël dall’altra: ma poche ore dopo i nemici di sempre riprendono a spararsi addosso. Beh, non è la stessa cosa, non siamo in guerra, l’emergenza attuale è di tutt’altra natura e non divide ma accomuna, come un incubo sovranazionale, i Paesi d’Europa e del mondo.
Inoltre la tregua in molti casi è parsa una concessione improponibile. Infatti i governi alle prese con il Covid-19, lacerati dal dilemma se parare in primo luogo le insidie del contagio o placare il crescente disagio popolare concedendo qualche libertà per l’occasione festiva, in qualche modo hanno dichiarato una tregua o almeno hanno pensato di farlo. Una tregua piccola o piccolissima a seconda dei casi, e proprio come quella del 1914 di brevissima durata. Perché l’emergenza sanitaria incombe, e dopo aver segnato questo terribile 2020 marchierà anche il nuovo anno imminente.
Alcuni governi hanno fatto una precipitosa marcia indietro, dopo che lo shopping prenatalizio aveva dato luogo a pericolosi assembramenti mandando a quel paese ogni precauzione a cominciare dal distanziamento sociale. È stato così mancato, o almeno non centrato in pieno, l’obiettivo non certo secondario di dare un po’ di ossigeno al sistema commerciale depresso dalla pandemia, garantendo almeno in parte quel picco di consumi che tradizionalmente si raggiunge in prossimità del Natale. Un fenomeno sul quale si reggono molte imprese commerciali soprattutto di dimensioni medie o piccole.
Il fatto è che un messaggio molto chiaro era giunto dagli Stati Uniti dove dopo il 26 novembre, giorno del Thanksgiving, gli affollamenti e gli spostamenti tipici della tradizionale festività americana avevano prodotto una brusca impennata dei contagi, e questo proprio nel Paese che da sempre guida la triste graduatoria dei luoghi più duramente colpiti dalla pandemia. Il segnale giunto da oltre oceano è stato poi confermato in molte parti d’Europa dalla ressa commerciale dei giorni scorsi. Dunque meglio procedere con i piedi di piombo, meglio non esagerare con la tregua, meglio rinviarla a tempi migliori. L’obiettivo è di capitale importanza: si tratta di scongiurare la prospettiva inquietante della terza ondata.
E così il mondo cristiano deve rassegnarsi a una sorta di Natale di guerra, in alcuni casi con una piccola tregua momentanea simile a quella del 1914. Quella che si prospetta è una inedita interpretazione spartana della festa sfolgorante di luci alla quale siamo abituati da sempre. Dovremo fare a meno di molte cose consacrate dall’abitudine. Saranno celebrazioni prevalentemente domestiche con meno luci, meno convitati attorno alla tavola imbandita, meno regali, meno allegria. Persino Babbo Natale, o Santa Claus che sia, quest’anno è meno indaffarato del solito, nonostante i chiassosi richiami pubblicitari che ce lo mostrano sulla sua slitta stracolma di doni. È triste che anche i bambini, già penalizzati dalle restrizioni scolastiche che hanno investito tanti di loro, debbano pagare il conto di questa festa così poco festosa.
Eppure... Eppure si può forse vedere la cosa da un’angolazione totalmente diversa. Questo Natale dimesso e attenuato, non potrebbe forse far riscoprire i preziosi valori dell’intimità familiare? Al Natale dei consumi non potrebbe affiancarsi e sostituirsi un Natale dei sentimenti? Fuori da ogni retorica, non è certo cosa nuova una critica di fondo della ricorrenza festiva di fine dicembre, quella che la indica come una degenerazione consumistica, con tanti saluti ai suoi pretesi connotati spirituali. In fondo che cosa si festeggia il 25 dicembre? La nascita di Gesù o l’occasione ormai collaudata di una festa consacrata ai regali, agli eccessi, alle diete ipercaloriche e iperalcoliche? Questa visione accompagna e integra la critica di fondo del Natale, quella che inchioda la festività alla sua origine chiaramente pagana.
È noto che agli albori del cristianesimo esisteva già da tempo la grande festa del solstizio d’inverno, che del resto è presente anche in altre culture da un capo all’altro del pianeta. Si celebrava la fine delle tenebre, il trionfo del Sol invictus che finalmente cominciava a far crescere la luce, a trasportare gradualmente il mondo verso gli splendori della primavera. Da quel giorno in avanti il cielo cessava di oscurarsi e i suoi tempi di luce cominciavano ad allargarsi: era la fine fisica delle giornate sempre più corte e insieme la fine simbolica del terrore del buio e della morte. Il Natale s’innestò proprio su questa tradizione, si decise di collocare vicino al solstizio la data della nascita di Gesù. In modo da conciliare la nuova festa cristiana con l’antica tradizione pagana, incoraggiando così le conversioni dei tradizionalisti ancora legati al retaggio degli «dei falsi e bugiardi».
Che in tutto questo ci sia qualcosa di incongruo è confermato da una semplice considerazione. La narrazione evangelica e il punto di vista tradizionale che ci viene puntualmente riproposto dal presepe ci parlano di una condizione meteorologica che difficilmente potrebbe definirsi invernale. I pastori chiamati a venerare il neonato conducono all’aperto le loro greggi, attività incompatibile con le giornate di dicembre, che sono fredde anche dalle parti di Betlemme. È dunque evidente che la nascita di Gesù dovrebbe collocarsi in un’altra stagione dell’anno. Insomma il Natale cristiano non corrisponde a un anniversario accuratamente misurato, è una ricorrenza simbolica fissata quel giorno per rispetto di altre culture in un’epoca di transizione. È ancora di origine pagana un’altra tradizione natalizia, tipica stavolta delle civiltà nordiche, quella dell’albero impreziosito, e in qualche misura sacralizzato, dalle più varie decorazioni.
Tutto questo naturalmente non incide se non marginalmente sulla percezione del Natale da parte dei popoli cristiani. La grande festa di fine anno ha per così dire acquisito una sua immagine ormai stereotipata nel sentire comune, e dunque le limitazioni indotte quest’anno dalla pandemia sono percepite esattamente come sacrifici individuali. Su questo punto l’opinione è divisa fra chi, la maggioranza, considera che le restrizioni sono imposte da circostanze oggettive, il diabolico propagarsi del morbo, e dunque vanno accettate con rassegnazione, e chi al contrario non crede che quelle misure siano in realtà necessarie e le subisce come un’immotivata limitazione di libertà. Nell’un caso come nell’altro si stempera la superstite poesia del Natale, questo Natale di guerra che certamente sarà molto difficile dimenticare.