Quando andai a vivere a Pechino, in un’antica casa tra i vicoli del centro storico vicino al laghetto imperiale Houhai, la prima cosa che appesi al muro per «arredare» la mia nuova dimora fu una carta geografica. Era una mappa molto diversa da quelle che siamo abituati a consultare noi. Al centro di quel planisfero c’era la Cina. Il resto – l’Europa da una parte, le Americhe dall’altra – era relegato ai due margini, alle estremità: periferie. È molto probabile che una carta del mondo fatta così, voi non l’abbiate mai vista. Mette a disagio, deforma i continenti, si stentano a riconoscere quelle sagome che siamo abituati a vedere dall’infanzia. Eppure è quella la carta geografica che nelle scuole elementari cinesi viene studiata. È la visione confuciana del mondo, con la civiltà cinese al suo centro, tutto il resto sono satelliti che le gravitano attorno, o barbari, soggetti comunque inferiori.
Quando mia moglie ed io adottammo tre bambini «cinesi» – o meglio, cittadini della Repubblica Popolare ma appartenenti ad una minuscola minoranza etnica dello Szichuan – accarezzammo all’inizio il progetto di portarli a Pechino, dalla città di Xichang nello Szichuan. Bastò qualche loro breve soggiorno in visita nella capitale per dissuaderci. Gli episodi di razzismo erano quotidiani. I tre bambini venivano riconosciuti come diversi e trattati con un disprezzo rivoltante. Qualche amico ci spiegò che a Pechino li avrebbero ammessi solo in una scuola per bambini con gravi handicap mentali. Ne avremmo fatto degli infelici. Chi crede che il razzismo sia una piaga dell’Occidente, non è mai vissuto in Cina o in Giappone. Pochi popoli sono così imbevuti di una teoria delle propria superiorità, come quelli che appartengono alla civiltà confuciana.
Nei miei anni cinesi mi appassionai alla storia di quel paese. Un personaggio in particolare mi affascinava: l’eunuco-ammiraglio Zheng He, che esplorò oceani lontani, più di mezzo secolo prima che i navigatori europei aprissero per noi l’era delle grandi scoperte. Raccontato dai manuali di storia cinesi, Zheng He appare come un eroe benevolo, alla guida di una flotta che esplorava interi continenti senza ambizioni di conquista o di sfruttamento. Ma negli ultimi anni quella visione mitica è stata rivista e corretta: in realtà la flotta di Zheng He intimidiva i paesi visitati per farne dei vassalli arrendevoli. Non arrivò a conquistare e a costruire imperi d’oltremare, solo perché la dinastia Ming dovette ripiegare la sua forza militare sul territorio domestico, minacciata dalle invasioni nomadiche che avrebbero portato alla sua caduta.
Questi ricordi storici sono utili per rispondere alla domanda fondamentale del nostro tempo. Ben più importante dell’espansionismo russo o del terrorismo islamico, nel lungo periodo è l’ascesa della Cina il vero sconvolgimento del corso della storia. È inesorabile, è inevitabile, il trapasso dal Secolo Americano al Secolo Cinese?
Chi teorizza la «trappola di Tucidide», come lo storico americano Graham Allison di Harvard, si rifà alla guerra del Peloponneso. Nelle parole dello storico greco Tucidide, «fu l’ascesa di Atene e la paura che ispirò a Sparta, a rendere la guerra inevitabile». Allison ha studiato 16 casi negli ultimi 500 anni in cui «l’ascesa di una grande nazione ha minacciato la posizione della potenza dominante»: 12 di quei 16 casi si sono conclusi con una grande guerra.
Lo stesso presidente Xi Jinping prende sul serio la «trappola di Tucidide» al punto che l’ha citata più volte nei suoi discorsi. Ammonendo noi occidentali a non cadere in quell’errore. Xi vuole rassicurarci: la Cina – proprio come l’ammiraglio Zheng He nella versione agiografica – sarebbe una potenza benevola. Interessata a favorire gli scambi nell’interesse reciproco: «win-win», un gioco in cui siamo tutti vincitori. Il modello è la Via della Seta. Questo è un termine coniato dal geografo tedesco Ferdinand von Richthofen nel 1877 per descrivere una realtà antichissima, che ha una risonanza evocativa: indica l’insieme di rotte commerciali e carovaniere che congiungevano il Mediterraneo con l’Asia centrale e poi l’Estremo Oriente, dai tempi dell’antica Roma fino al nostro Rinascimento. È quella che attraversò Marco Polo, figlio di mercanti veneziani, per arrivare fino al mitico Catai che descrisse nel suo Milione.
La Nuova Via della Seta, proposta dalla Cina al resto del mondo, si propone come l’architrave della globalizzazione 2.0. Se il Secolo Americano si sta chiudendo, il Secolo Cinese si candida a sostituirlo con questo modello pacifico. Il titanico progetto di costruzione di infrastrutture che Pechino «offre» al resto del mondo (pagando buona parte dei costi, stimati oltre i mille miliardi), non è solo la costruzione di una vasta rete di connessioni per consolidare rapporti economici; è anche la proposta di un modello alternativo a quello americano. Siamo al passaggio delle consegne? In America e nell’intero Occidente si moltiplicano i pentiti della globalizzazione, e alimentano i ripiegamenti nazionalisti. La Cina afferra la bandiera del globalismo, ne pretende la leadership, costruisce le nuove istituzioni per governarla.
Xi ha promesso da subito 124 miliardi di investimenti ai 65 paesi coinvolti nel progetto One Belt One Road (detto anche Nuova Via della Seta). Oggi è l’Occidente a fare marcia indietro rispetto al multilateralismo e alla globalizzazione. E non diamo tutta la colpa a Trump. Già Brexit aveva confermato l’inizio di una marcia a ritroso rispetto all’era della costruzione di grandi mercati aperti, ormai contestata da anni sia in Europa che in America. Appena arrivato alla Casa Bianca, Trump ha stracciato il Tpp, nuovo trattato di liberalizzazioni degli scambi con l’Asia-Pacifico a cui aveva lavorato per anni Obama. Il trattato gemello Ttip, fra Usa e Ue, è già da tempo su un binario morto. Prima ancora dell’arrivo di Trump erano gli europei a non volerlo più.
Riprendendo un cavallo di battaglia della sinistra, Trump in campagna elettorale ha ripetuto più volte: smettiamola di fare il gendarme del mondo, non illudiamoci di esportare democrazia; se c’è una nazione da ricostruire è l’America, le cui infrastrutture cascano a pezzi. Constatazione irrefutabile. Però questo accento sulla «priorità interna» segna una rottura con 70 anni di tradizione globalista degli Stati Uniti. Non è che la Cina sia meno nazionalista, e in quanto a protezionismo può dare dei punti a tutti. Ma ora è Xi Jinping ad ammantare gli interessi nazionali cinesi di una visione che include un progetto da condividere con il resto del mondo. Secondo le stime di Pechino, gli investimenti per la Nuova Via della Seta hanno già creato 180’000 posti di lavoro nei 65 paesi coinvolti, che rappresentano il 62 per cento della popolazione mondiale e oltre un terzo del Pil planetario.
Mille miliardi sono una valutazione «prudente» di quel che la Cina stima come volume totale degli investimenti in infrastrutture, dalle ferrovie merci ai porti, dagli oleodotti alle reti elettriche, in una ramificazione che abbraccia l’Oceano Indiano e il Mediterraneo, il sudest asiatico e la Mitteleuropa.
Pechino ha un debito pubblico più alto di quello americano, ma procede lo stesso. Nel suo capitalismo di Stato le joint-venture pubblico-privato sono costanti. Banche pubbliche e grandi imprese statali hanno già stanziato 130 miliardi di dollari per gli investimenti in vario modo collegati alla Nuova Via della Seta.
Il globalismo cinese, proprio come quello americano alla fine della Seconda guerra mondiale, avanza costruendo non solo autostrade e aeroporti, ma anche istituzioni per la governance. L’America di Roosevelt disegnò l’architrave della prima globalizzazione a Bretton Woods nel 1944: Fmi, Banca mondiale, Gatt. Poi appoggiò la nascita della Cee. La Cina ha già fatto una prima mossa con l’inaugurazione della Asia Infrastructure Investment Bank. Gli americani usarono gli aiuti del Piano Marshall per legare a sé i paesi alleati, e al tempo stesso farne degli sbocchi per le proprie esportazioni. Xi è già riuscito ad attirare dentro la nuova banca i maggiori paesi europei, sganciandoli dagli Usa che non ne fanno parte. E per la Cina la Nuova Via della Seta apre nuovi sbocchi proprio come il Piano Marshall: a cominciare dalle grandi opere infrastrutturali, dalla produzione di cemento e acciaio, dove la Repubblica Popolare soffre di sovrapproduzione. È un modo per rilanciare la crescita cinese, minacciata al suo interno da bolle speculative, sofferenze bancarie, invecchiamento demografico. Si accompagna alla internazionalizzazione del renminbi, che per la prima volta è stato promosso dal Fmi nel club delle valute globali con dollaro, euro, yen.
Il Secolo Americano ebbe la sua dottrina: da un lato vantava la superiorità del binomio formato da economia di mercato e liberaldemocrazia; d’altro lato prometteva benefici ben distribuiti a tutti coloro che aderivano a quel modello. Oggi l’Occidente è pervaso da dubbi e delusioni: con la globalizzazione sono aumentate le diseguaglianze interne, il ceto medio sta franando, i giovani hanno aspettative inferiori ai genitori. La Cina vede il mondo alla rovescia: la globalizzazione ha ridotto le distanze Nord-Sud e ha consentito di creare nei paesi emergenti una nuova classe media di oltre mezzo miliardo di persone.
Xi teorizza apertamente la superiorità del suo modello autoritario rispetto al caos politico delle democrazie occidentali. Ma nei maxi-investimenti per la Nuova Via della Seta chi garantisce la sostenibilità ambientale? E in quei cantieri ci saranno diritti sindacali? L’Europa che ha contestato aspramente il globalismo di Obama e il Ttip in nome della salute e della protezione dei consumatori, dovrà mostrarsi altrettanto vigilante di fronte all’avanzata del modello cinese.