In principio fu Theodor Hertzl, il padre del sionismo in persona: una celebre immagine dell’anno 1900 lo ritrae ad Altaussee, sulle montagne dell’Austria, con una Victoria Blitz, la bicicletta prodotta da Adam Opel prima del debutto nell’industria automobilistica. Amava la bicicletta, Hertzl; considerava quel nuovo mezzo di locomozione, allora modernissimo, un simbolo potente dell’emancipazione che aveva portato gli ebrei fuori dagli shtetl, i villaggi e quartieri ebraici dell’Europa Orientale. Non a caso la sua Victoria Blitz è tuttora uno dei pezzi forti dell’esposizione nel Museo ebraico di Vienna. Eppure neanche il padre del sionismo – l’uomo che per Gerusalemme aveva preconizzato con più di un secolo d’anticipo persino il tram – probabilmente osò mai immaginare che un giorno una grande gara ciclistica sarebbe partita dal cuore della Città Santa.
Invece è quanto accaduto in questi giorni con il Giro d’Italia, la prima corsa a tappe del ciclismo internazionale a toccare nel suo percorso Israele. Molto è stato scritto su questo evento che – in un contesto incandescente come quello del Medio Oriente – inevitabilmente avrà anche ripercussioni politiche: sono state tre le tappe del Giro in Israele, le prime dell’edizione 2018, che dopo il prologo di venerdì 4 maggio a Gerusalemme (su un circuito cittadino disegnato con cura per evitare sconfinamenti oltre la Linea Verde che fino al 1967 segnava il confine di fatto con la Giordania) nei due giorni successivi ha toccato anche Haifa, Tel Aviv e il deserto del Negev fino a Eilat. Tre giorni nel segno della memoria di Gino Bartali, già riconosciuto ufficialmente nel 2013 dallo Yad Vashem – il memoriale della Shoah a Gerusalemme – come Giusto tra le nazioni, cioè uno di quegli eroi che hanno rischiato la propria vita per salvare quella di alcuni ebrei durante la persecuzione nazista (e che proprio in questi giorni riceverà postuma anche la cittadinanza onoraria israeliana).
Ma il Giro d’Italia che fa tappa in Israele è anche molto altro. E allora se per una volta proviamo a lasciare un momento da parte la politica forse riusciremo ad accorgerci che il Giro è una splendida occasione per ripercorrere la storia recente del Medio Oriente da un punto di vista molto particolare: quello, appunto, del rapporto con la bicicletta. Relazione in Terra Santa non sempre facile, e non solo a causa delle pendenze non indifferenti di una città come Gerusalemme o per il caldo torrido del deserto. Intanto va detto che i primi a portare le biciclette a queste latitudini furono gli inglesi al tempo del mandato britannico in Palestina. Ma già nel 1930 l’Hapoel, il sodalizio sportivo dei pionieri sionisti, aveva fondato una sua unione ciclistica. E nel 1932 le prime Maccabiadi – i giochi sportivi del mondo ebraico – prevedevano nel loro programma una gara ciclistica per le strade di Tel Aviv.
A complicare un po’ le cose ci si mise molto presto il protezionismo del nuovo Stato di Israele che, dopo la sua nascita nel 1948, in nome dell’economia di Stato impose barriere molto alte all’importazione di biciclette straniere, con l’intento di promuovere la produzione locale. Certo, va anche aggiunto che i kibbutz – i villaggi comunitari, icona del socialismo sionista teorizzato da David Ben Gurion – in quegli stessi anni furono un veicolo importante nella diffusione delle biciclette: le due ruote erano infatti il regalo ufficiale del movimento a ogni ragazzo in occasione del bar mitzva la cerimonia religiosa di ingresso a tredici anni nell’età adulta (e pure per il bat mitzva delle ragazze, in nome dell’egalitarismo – rivoluzionario per il Medio Oriente – predicato e praticato nei kibbutz). Eppure fino al 1984 le rigidissime regole israeliane continuarono comunque a imporre la presenza di un numero di matricola su ogni bicicletta; e i racconti dell’epoca dicono che – in assenza della fatidica targhetta – la polizia municipale era titolata persino a sgonfiare le gomme al malcapitato ciclista.
Paradossi di un Israele socialista che non esiste più ormai da decenni. Molto più duraturo, invece, si sarebbe rivelato un altro ostacolo: i pregiudizi contro le due ruote da parte degli haredim, gli ebrei ultra-ortodossi immortalati in tutte le immagini di Gerusalemme coi loro abiti e cappelli neri. Tuttora nelle loro comunità considerano la bicicletta fondamentalmente un «gioco da bambini» che distoglie i giovani dallo studio della Torah (quando non addirittura una perversione che offende la «modestia» dei religiosi). Va detto, per altro, che non esistono veri e propri pronunciamenti rabbinici contro la bicicletta (se non il divieto di utilizzarla durante lo shabbat o le feste); eppure è un dato di fatto che nei loro quartieri gli adulti in bicicletta, fino a qualche tempo fa, erano una rarità (e le donne in bicicletta qualcosa di semplicemente impensabile). In Israele ma non solo: persino a New York l’allora sindaco Michael Bloomberg qualche anno fa dovette scendere a patti e cambiare il percorso di una pista ciclabile perché avrebbe attraversato una zona abitata da ebrei ultra-ortodossi. E ancora oggi – nonostante il successo registrato a Tel Aviv – in una città come Gerusalemme, che conta oggi oltre 850 mila abitanti, l’introduzione del servizio del bike-sharing rimane bloccata proprio dall’ostilità dei partiti religiosi ebraici.
Nonostante tutto questo, la cultura della bicicletta comunque cresce oggi in Israele e l’ospitalità offerta al Giro d’Italia in qualche modo ne rappresenta un simbolo. Dall’inizio del decennio sono aumentate a vista d’occhio le due ruote, soprattutto nelle aree metropolitane. A Tel Aviv le statistiche cittadine dicono che il 15 per cento degli abitanti sceglie questo mezzo per recarsi a scuola o al lavoro. Ma anche a Gerusalemme negli ultimi tempi è scoppiato il boom delle biciclette a pedalata assistita, che permettono anche a chi non ha un fisico da grimpeur di affrontare con disinvoltura le salite intorno alla Città Vecchia (anche se qualche preoccupazione in più in città oggi la destano i ciclisti che toccano ben poco i freni nella discesa di Jaffa Street, l’arteria commerciale, sempre piena di pedoni...).
Anche fuori dalle città, poi, la bicicletta in Israele sta conquistando nuovi spazi; un sogno ambizioso – ad esempio – è quello dell’Israel Bike Trail, una pista ciclabile di oltre 800 chilometri da percorrere in mountain bike che si propone di far attraversare tutto il Paese dal monte Hermon al nord fino ad Eilat, la città israeliana sulle rive del mar Rosso, nell’estremo sud. Fu l’allora presidente Shimon Peres a inaugurare il primo tratto nel 2013, anche se per ora ad essere davvero percorribile è solamente la parte sud, quella che attraversa il deserto del Negev da Mitzpe Ramon fino ad Eilat.
Ed è proprio su queste strade polverose che può accadere persino quanto apparentemente oggi sembrerebbe impossibile: mettere insieme arabi ed ebrei grazie alle due ruote. Dal 2003 ogni autunno si tiene infatti l’Israel Ride un evento internazionale per cicloamatori promosso dall’Arava Institute for Environmental Studies, un istituto scientifico che ha l’obiettivo di far dialogare tra loro arabi ed ebrei almeno sulle questioni dell’ambiente. Perché proprio nello stesso Medio Oriente dove tutti si combattono in nome della terra, questa stessa terra soffre le conseguenze del cambiamento climatico e dell’inquinamento. E non c’è muro sufficiente a trattenerne gli effetti da una parte sola della barricata. Ecco allora che un mezzo ecologico come la bicicletta è diventato il testimonial perfetto per lanciare questo messaggio; e un cicloraduno in cinque tappe da Gerusalemme a Eilat un modo per raccogliere fondi che vanno a finanziare la formazione di giovani leader ambientalisti israeliani, giordani e palestinesi presso l’Arava Institute, dove svolgono insieme attività di ricerca per imparare ad affrontare queste sfide.
Non sfrecceranno veloci come i campioni del Giro d’Italia, ma il traguardo davanti a loro lo hanno comunque ben chiaro. E a questo Medio Oriente sempre così pieno di nubi oscure suggeriscono che alzarsi sui pedali potrebbe essere un esercizio utile per provare a ritrovare la strada.