Seul non vuole la guerra

Corea del Sud – Spesso accusata di non curarsi della follia dei cugini, la Repubblica vive la guerra del 1950 come una ferita ancora aperta, sulla quale ha costruito negli anni una democrazia che non vuole perdere
/ 21.08.2017
di Giulia Pompili

Quando Moon Jae-in è stato eletto in Corea del sud, poco più di tre mesi fa, non pensava certo di ritrovarsi nel mezzo di una delle crisi più difficili della penisola da un decennio a questa parte. Durante tutta la campagna elettorale aveva insistito su un punto, soprattutto in politica estera: c’è bisogno di un cambio di passo, ma questa volta i sudcoreani sono adulti e maturi, e possono scegliere per conto loro. E infatti, poche settimane dopo la sua elezione, l’accordo caldeggiato da Washington tra Tokyo e Seul sulle cosiddette «donne di conforto» – un accordo firmato in fretta e furia alla fine dello scorso anno – è stato di fatto annullato. Allora la Corea del sud si era impegnata a rinunciare alle scuse formali da parte del Giappone, dovute alle schiave del sesso usate dall’esercito nipponico durante l’occupazione, in cambio di un corrispettivo economico. Ma l’opinione pubblica era rimasta scontenta, e comprensibilmente: una transazione non equivale al riconoscimento di un crimine di guerra.

Moon Jae-in aveva usato la stessa narrativa anche per i rapporti con la Corea del nord: sono i nostri fratelli, i nordcoreani, e l’ipotesi di una guerra è esclusa. Piuttosto, dobbiamo riaprire tutti i canali di comunicazione, farli sedere al tavolo delle trattative e cercare il coinvolgimento, anche economico. Per esempio con la riapertura del complesso industriale congiunto di Kaesong, l’unica zona franca tra il Nord e il Sud, chiuso nel febbraio del 2016 dopo le ripetute provocazioni della leadership di Pyongyang. Insomma, Moon sperava in un ritorno a quella che viene chiamata la «Sunshine policy», una politica di dialogo con il Nord, ma questa volta condotta da Seul. Perché in Corea del sud tutti sanno che la partita della penisola in realtà si gioca tra l’America e la Cina. Eppure, in caso di guerra, l’esercito sudcoreano sarebbe tra i primi a intervenire, e l’artiglieria e i missili a corto raggio nordcoreani sarebbero certamente puntati verso sud. 

Su una città come Seul, coi suoi quasi dieci milioni di abitanti, e sui duecento chilometri scarsi che la dividono da Pyongyang. Moon voleva tendere una mano al leader nordcoreano Kim Jong-un ma si è ritrovato alla Casa Bianca Donald Trump, che provoca via Twitter e fa saltare i tavoli delle trattative. Per i sudcoreani questo è una specie di déjà-vu. Anche durante la guerra tra le due Coree iniziata nel 1950 con un tentativo di invasione da parte della Corea del nord di Kim Il-sung, era stata l’America di MacArthur a decidere di proseguire oltre il 38° parallelo, e respingere l’influenza russo-cinese oltre i confini della penisola. Finì malissimo, con milioni di morti e tre anni di conflitto. Ma per i sudcoreani poter essere finalmente liberi di decidere che tipo di politica adottare con il Nord è anche una scelta identitaria. La Corea ha attraversato periodi difficili, di governi autoritari e «unfit», e adesso vuole dimostrare di poter fare da sola, e di essere l’unica in grado di risolvere la questione nordcoreana.

Come sempre, è il passato a spiegare il presente. Uno dei film più visti in questi giorni in Corea del sud, il più visto di sempre a una settimana dall’uscita nelle sale cinematografiche, è una produzione tutta coreana. Diretto da Jang Hoon, A Taxi Driver è la storia vera di Kim Sa-bok, un tassista di Seul, che nel 1980 si trovò suo malgrado ad accompagnare il giornalista tedesco Jürgen Hinzpeter a Gwangju, 260 chilometri a sud della capitale sudcoreana. Da queste parti Hinzpeter, scomparso l’anno scorso a quasi ottant’anni, è un eroe nazionale, ed è qui che ha voluto essere sepolto. Hinzpeter è stato l’unico giornalista straniero a raccontare la rivolta di Gwangju del maggio del 1980, quando governo ed esercito repressero il desiderio di democrazia degli studenti universitari. Per i sudcoreani Gwangju è una ferita aperta, di cui ancora oggi si parla con imbarazzo. Ma non è un caso che il film sia uscito proprio adesso: perché quella rivolta è stato un momento fondamentale nel processo di democratizzazione della Corea del sud. È stato Moon Jae-in, il presidente eletto nello scorso maggio, il primo a piangere durante la commemorazione che ogni anno, il 18 maggio, si svolge al memoriale dedicato agli studenti morti. Il primo a dare risalto mediatico alla cerimonia. Quest’anno, centomila persone hanno assistito per la prima volta a un presidente che, insieme agli altri, ha cantato la March for the Beloved, il brano dedicato alle vittime della strage. Fino allo scorso anno soltanto l’orchestra poteva suonare quella canzone, ma nessuno poteva cantarla. Per legge.

La rivolta di Gwangju apparve in un periodo già turbolento in Corea del sud. Park Chung-hee, da molti considerato un dittatore per il suo stile duro e autoritario, che aveva preso il potere nel 1960 con un colpo di Stato, era stato assassinato soltanto l’anno prima – un evento che aveva portato all’istituzione della legge marziale in tutto il Paese. Nel maggio del 1980 a governare la Corea del sud c’era la giunta militare presieduta da Chun Doo-hwan, che era un fedele di Park. Tutto iniziò con l’ipotesi di chiudere l’università di Chonnam, a Gwangju. La mattina del 18 maggio gli studenti, almeno duecento, si piazzarono davanti ai cancelli: ci furono i primi scontri con la polizia. 

Ma nel pomeriggio, in sostegno dei ragazzi, arrivarono altre duemila persone. Kim Gyeong-cheol, ventinove anni, stava tornando al lavoro dopo la pausa pranzo, fu colpito nel mucchio e ucciso dalle forze di polizia. Quella morte scatenò altre violenze. Il 20 maggio le persone in strada a combattere contro il governo e a chiedere più democrazia diventarono diecimila. Chun chiamò i rinforzi, tra cui i carri armati. Il 27 maggio la rivolta era sedata, ma nessuno ancora oggi conosce il numero di morti – si dice tra i duecento e i duemila. Il governo aveva messo in piedi una sofisticata macchina di propaganda per screditare i rivoltosi, accusandoli di essere infiltrati della Corea del nord.

L’America, nel frattempo, monitorava insieme con il Giappone la situazione, chiudendo gli occhi sulla repressione violenta, proprio per controllare l’eventuale presenza di nordcoreani tra i rivoltosi e – soprattutto – scongiurare che Pyongyang potesse avvantaggiarsi dalla Corea del sud nel caos. Le immagini delle violenze di Gwangju ricordano quelle di piazza Tiennanmen in Cina. Eppure per i decenni successivi tutti i presidenti sudcoreani hanno tentato di sminuire la memoria del massacro. È alla luce di questo che le proteste pacifiche del novembre del 2016, che hanno portato all’impeachment e poi all’arresto della presidente Park Geun-hye, avevano tutto un altro significato. La volontà di Moon Jae-in di tendere una mano al Nord, nonostante la determinazione di Trump di cancellare la politica della «pazienza strategica» dell’Amministrazione di Barack Obama, ha un senso solo se considerata insieme alla coscienza di un popolo intero. Che di una guerra proprio non ne vuole sapere.