Non sarà l’annus horribilis come il 1992, ma certo che il 2019 di Elisabetta II è stato un anno brutto, bruttissimo. Con l’aggravante che la sovrana ha 93 anni e che il tipo di problemi che aleggia intorno a Buckingham Palace non è più legato alle esuberanze di una giovane generazione di «royals» alla ricerca di una felicità al passo con i tempi, ma con qualcosa di senile e irrimediabilmente decadente, che sa di perdita di controllo, di meccanismi arrugginiti e, nel peggiore dei casi, di polverosa arroganza. Qualcosa a cui bisogna trovare presto una soluzione, perché in tempi di volatilità politica altissima, il ruolo della monarchia potrebbe non essere garantito in eterno, tanto più se un giorno non ci sarà più il suo simbolo più forte e riverito: la regina.
L’anno è cominciato per le strade del Norfolk quando, a gennaio, il novantasettenne Filippo d’Edimburgo è finito con il Suv su una macchina con a bordo un bambino di nove mesi, illeso per miracolo. La madre e l’altra passeggera sono rimaste leggermente ferite, ma c’è voluta una loro richiesta pubblica perché finalmente arrivasse una lettera di scuse del consorte di Elisabetta, a cui è stato suggerito di non guidare più al di fuori dalle tenute reali. Poi, con il rumore di fondo dei pettegolezzi sui rapporti sempre più freddi tra le due «belle di casa» Kate e Meghan, spiacevoli ma utili per vendere vestiti e giornali scandalistici, è arrivato l’uragano Boris Johnson e quella richiesta di firmare la decisione di «prorogare», ossia sospendere, il Parlamento per cinque settimane proprio in vista di una scadenza importante per la Brexit.
Quando i giudici hanno stabilito che il premier aveva «mentito» alla regina per farle approvare una misura illegale – non che lei avesse la scelta, sia chiaro – Elisabetta II, per un istante, è apparsa fragile, un’anziana facile da raggirare. E sebbene non sia così, è stato un capitolo brutto che non l’ha certo rafforzata.
I britannici vogliono bene alla loro famiglia reale e tendono a perdonare tutto. Lo spettacolo delle nuore ribelli, dei figli non sempre astutissimi, di qualche parente controverso piace, come dimostra il successo dell’inarrivabile serie The Crown. Piace il controllo che c’è dietro ogni cosa, la patina di gelo con cui Elisabetta II affronta il mondo e gli imprevisti da telenovela, mentre non piace quando questo controllo viene meno.
E l’intervista di Andrea, presunto figlio preferito della regina, è stata una catastrofe colossale, non solo per i suoi contenuti – l’amicizia mai interrotta con una persona condannata per pedofilia come Jeffrey Epstein, la mancata solidarietà nei confronti delle vittime, la scivolosa dichiarazione secondo cui «se sei un uomo, il sesso è un atto positivo» – ma anche e soprattutto per l’arroganza con cui il principe, che in linea di successione al trono è solo ottavo, ha dato risposte vaghe e accampato scuse poco credibili, come l’essere andato in una catena di pizzerie la sera in cui secondo la sua accusatrice, Virginia Giuffre, avrebbero avuto un incontro. Col risultato che, secondo YouGov, solo il 6% dei britannici crede alla ricostruzione dei fatti di Andrew e il 47% pensa che l’intervista abbia danneggiato la monarchia.
Monarchia che, sempre secondo YouGov, per ora regge bene presso l’opinione pubblica. Ma, come la Brexit, non piace ai più giovani. Un dettaglio che non sarà sfuggito a «The Firm», come viene soprannominata Casa Windsor, che da anni persegue con successo la celebre strategia del Marmite, dal nome della sostanza bruna che i britannici da sempre amano spalmare su pane e burro, sopravvissuta alle evoluzioni del gusto grazie a impercettibili cambiamenti nella grafica e nel packaging. Sempre tradizionale, sempre attuale. Ma in un caso come quello di Andrew, l’unica strada possibile è stato rimuoverlo immediatamente da ogni palcoscenico reale, «detronizzarlo» anche se non era sul trono, fargli fare un passo indietro dalle 230 organizzazioni caritatevoli in cui è coinvolto, tagliargli le 250mila sterline di paghetta annuale e non dare più la possibilità alla vicenda Epstein, tutt’altro che finita, di intaccare un organismo più fragile che mai.
Anche perché le vittime minorenni di Epstein, diventate grandi, chiedono a gran voce che il principe vada a testimoniare all’Fbi per aiutare le indagini, cosa che lui, senza eccessiva enfasi, si è detto pronto a fare. Ma secondo gli avvocati, non è una buona idea che si rechi negli Stati Uniti perché oltre ad essere un testimone – e ad aver rilasciato dichiarazioni non esattamente inattaccabili alla BBC – Andrew è accusato da Virginia Giuffre di avere avuto rapporti con lei quando era minorenne. Il rischio che gli venga impedito di tornare nel Regno Unito in attesa di processo non è campato in aria.
Perdita di controllo, si diceva. Non solo perché la regina è ultranovantenne ma anche perché il suo erede, Carlo principe di Galles, da anni sta cercando di emanciparsi anche attraverso lo strumento cruciale della comunicazione, che prima era centralizzata e dipendeva quasi interamente da Buckingham Palace e dall’ex segretario privato della regina Christopher Geidt, mentre ora è vistosamente più frazionata. I risultati si sono visti, ed è qualche anno che non sono buoni: la gestione del royal wedding di Meghan e Harry, al di là del lieto evento finale, è stata una catastrofe oltre ogni immaginazione e la coppia, a cui era stato dato il compito di svecchiare l’immagine della monarchia, sta combinando un disastro dietro l’altro. William e Kate sono impeccabili, ma ancora percepiti come acerbi.
E d’altro canto è giusto che Carlo, ormai settantenne, inizi a prendere in mano la situazione, e infatti è stato lui a decidere opportunamente per la linea dura nei confronti del fratello. Perché il rischio è che, quando arriverà il momento, inevitabile, temuto e atteso, il primogenito della regina erediti un’istituzione troppo danneggiata per resistere, un trono in via di sgretolamento che, dopo che Elisabetta ha accompagnato il Paese dal dopoguerra alla modernità, non avrà più motivo di essere.