«Danneggia i valori della famiglia tradizionale e incoraggia il divorzio». Con questa spiegazione la Turchia di Recep Tayyip Erdogan si è ritirata dalla Convenzione di Istanbul, il primo trattato internazionale contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, scatenando proteste e attirando le critiche della comunità internazionale. Ma cosa significa questo passo indietro deciso dal presidente turco a pochi giorni dal Consiglio europeo del 25-26 marzo? Come si inserisce in quello che gli analisti definiscono «processo di arretramento della democrazia» in atto nel Paese nell’ultimo decennio?
Ce lo spiega Valeria Giannotta, esperta di Turchia e relazioni internazionali, docente universitaria ad Ankara e direttrice scientifica dell’Osservatorio Turchia del Centro studi di politica internazionale di Roma (www.cespi.it): «Nel 2011 la Turchia di Erdogan, in quel momento premier, è stata la prima Nazione a firmare la Convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza nei confronti delle donne e domestica. Il panorama politico turco era diverso da quello attuale: l’Akp, il partito di Erdogan, non aveva ancora assunto una posizione predominante e in Parlamento resistevano elementi di forte impronta laicista e kemalista (da Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna, ndr.). Allora il Paese stava implementando una serie di riforme d’impronta liberale, apprezzate dalle Nazioni occidentali, anche nell’intento di avvicinarsi all’Europa».
Giannotta ricorda che già nel 2005 si erano avviate le trattative per l’adesione della Turchia all’Ue anche se si sono arenate in fretta. Ad oggi solo 16 dei 35 capitoli sui singoli temi riguardanti l’adesione sono stati aperti e solo uno è stato chiuso, proprio nel periodo della firma della Convenzione di Istanbul. «Lo zelo democratico di Ankara – sottolinea l’intervistata – era da ricondurre a precisi calcoli interni: la necessità di Erdogan di acquisire consenso e sminuire il potere dei militari e dell’apparato statale che lo osteggiavano da sempre».
Negli ultimi 10 anni l’Akp si è trasformato, continua Giannotta. Nato nel 2001 come «partito pigliatutto», riuniva componenti più o meno tradizionaliste e si poneva come movimento di centro-destra al servizio del popolo, con un programma di democrazia conservatrice. «Dal 2011 ha gradualmente accentuato la sua tensione nazionalistica e la logica autoreferenziale di Erdogan che già all’epoca mirava a un programma presidenziale». Col passare del tempo quest’ultimo e il suo partito hanno assunto posizioni sempre più dominanti nel panorama politico turco e marginalizzato gli avversari, soprattutto l’opposizione kemalista. In seguito si sono susseguite diverse crisi: dalle grandi proteste del 2013 contro l’autoritarismo, duramente represse dal Governo, al tentato golpe del 2016. Tutti avvenimenti che hanno reso sempre più forte ed evidente il piano accentratore di Erdogan che nel 2014 era diventato presidente. «Adesso tutto passa dalla sua persona mentre il legame che inizialmente aveva con la base della società turca si è sfaldato». E paradossalmente, rimarca l’esperta, già con l’avvio del sistema presidenziale l’Akp ha iniziato a perdere consensi. Tanto che in occasione delle elezioni del 2018, per ottenere la maggioranza dei voti in Parlamento, Erdogan ha dovuto stringere un’alleanza col partito di estrema destra nazionalista Mhp.
Da quel momento, indica Giannotta, la componente nazionalista di Ankara si è ulteriormente rafforzata insieme alle tendenze conservatrici. Gli ultimi sondaggi però dimostrano che l’alleanza Akp–Mhp non paga più, anzi. Erdogan è in difficoltà. Così da un lato flette i muscoli, ad esempio licenziando il governatore della Banca centrale Naci Agbal dopo appena 5 mesi di lavoro (si tratta del quarto cambio attuato da luglio 2019 e testimonia l’insofferenza del presidente nei confronti dell’autonomia dell’istituzione). «D’altro canto Erdogan cerca nuove alleanze con le istanze più tradizionaliste della società. Negli ultimi tempi ci sono stati ad esempio degli incontri tra il presidente e gli esponenti del partito islamista Saadet Partisi, l’unico nel Paese a essere apertamente favorevole al superamento della scelta laicista imposta da Atatürk e dai militari». Quindi – sottolinea l’esperta – il ritiro dalla Convenzione di Istanbul si inserisce nella volontà di Erdogan di accaparrarsi le frange più conservatrici della società.
Il modello ideale di donna evocato dal presidente rimane quello di madre di numerosi figli e angelo del focolare nonostante il Paese si stia evolvendo e un certo processo di emancipazione femminile sia iniziato. Le studentesse continuano a crescere nelle università e vi sono esempi di donne successo, come l’imprenditrice Güler Sabancı o la sindaca di Gaziantep, Fatma Şahin, impegnata nell’accoglienza dei migranti.
In questo contesto di revival dei valori tradizionali – e di scontri di visioni inconciliabili, ad esempio per quel che riguarda il Mediterraneo orientale – restano forti i legami della Turchia con l’Ue. «Si tratta di legami su temi specifici», commenta Giannotta. «Penso alla questione dei migranti, all’energia, alla lotta al terrorismo. Ma i segnali che giungono da Ankara sono contrastanti. Poche ore prima del decreto presidenziale che sancisce l’uscita dalla Convenzione di Istanbul si è svolto un summit online tra Erdogan e rappresentanti dell’Ue in occasione dei 5 anni dalla firma dell’accordo sui migranti (e una road map per il futuro sta per essere elaborata)». Ankara – lo ricordiamo – già impegnata nell’accoglienza di un cospicuo numero di siriani in fuga dalla guerra, nel 2016 si impegnò a gestire il flusso di rifugiati, ospitandoli sul proprio territorio, a fronte del sostegno finanziario da parte di Bruxelles (6 miliardi di euro).
Nel frattempo pandemia e crisi economica, con il valore della la lira turca in caduta libera e un’inflazione del 17%, fiaccano una popolazione già stremata. Questo, per l’intervistata, non depone a favore di Erdogan che secondo alcuni esperti starebbe pensando di indire elezioni. «Sarebbe un suicidio politico e il presidente non accetta facilmente di perdere, per cui aspettiamoci nuove mosse, come la modifica della legge elettorale (da notare che in Turchia la soglia di sbarramento è fissata al 10 per cento). Ci sono rumors interni che indicano anche aggiustamenti dei confini di alcuni distretti elettorali».
La parità è l’antidoto alla brutalità, anche in Svizzera
La violenza domestica è un fenomeno diffuso in tutti i Paesi, Svizzera compresa, e tocca tutte le fasce sociali. Solo in Ticino nel 2020 gli interventi della polizia cantonale «per disagi in famiglia» sono stati 1105 (in media tre al giorno), 9 in più di quelli effettuati l’anno prima. Nella maggioranza dei casi le vittime erano donne. Gli esperti però avvertono: si tratta solo della punta dell’iceberg. Uno studio commissionato dall’Ufficio federale di giustizia rivela infatti che solo il 20 per cento dei casi di violenza domestica viene notificato alla polizia.
Per combattere questa piaga la Confederazione si è dotata di diversi strumenti e l’11 settembre 2013 ha sottoscritto la Convenzione di Istanbul (approvata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011). Il 16 giugno 2017 le Camere federali ne hanno votato la ratifica e il documento è entrato in vigore il 1° aprile 2018. I suoi cardini sono: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire penalmente i loro aggressori. In particolare la Convenzione chiede agli Stati contraenti di considerare reato penale o altrimenti sanzionare la violenza domestica (fisica, sessuale, psicologica o economica), lo stalking, la violenza sessuale, le molestie sessuali, il matrimonio forzato, le mutilazioni genitali femminili, l’aborto e la sterilizzazione forzati.
«Il testo – spiega l’Ufficio federale per l’uguaglianza tra donna e uomo – è un rinnovato invito a promuovere una maggiore uguaglianza tra donne e uomini, poiché la violenza sulle donne ha profonde radici nella disparità tra i sessi all’interno della società ed è perpetuata da una cultura che tollera e giustifica la violenza di genere e si rifiuta di riconoscerla come un problema».
Segnali contrastanti dalla Turchia
L’esperta Valeria Giannotta: «Ankara resta legata all’Occidente su temi specifici mentre in patria Erdogan è in difficoltà. Così cerca le simpatie delle istanze più conservatrici ritirandosi dalla Convenzione di Istanbul»
di Romina Borla