Secolo cinese o secolo americano bis?

La sfida Usa-Cina – L’assalto in piena regola lanciato dal presidente americano pone Xi Jinping e Donald Trump in rotta di collisione, ma la vera posta in gioco sarà la supremazia dei due rivali geoeconomici
/ 23.01.2017
di Lucio Caracciolo

Donald Trump ha lanciato la sfida alla Cina. Un assalto in piena regola, per ora verbale, che potrebbe presto concretarsi in barriere tariffarie all’importazione di beni cinesi e in guerriglia diplomatica sulle questioni geopolitiche più sensibili per Pechino. A cominciare dalle dispute sul Mar Cinese Meridionale e su quello Orientale, dallo status di Taiwan e dalla minaccia atomica nordcoreana, dietro cui Washington vede la mano della Cina.

Obama aveva a suo tempo avviato una postura di contenimento nei confronti della Repubblica Popolare, battezzata «Pivot to Asia». Trump intende portarla alle conseguenze estreme, ovvero al rollback. Fino a immaginare il cambio di regime a Pechino. Un assalto in grande stile, che però potrebbe sfuggire di mano al suo ideatore. Il rischio di un incidente nel Mar Cinese Meridionale fra navi Usa e cinesi non è affatto remoto. E la debolezza strutturale del loro sistema politico ed economico potrebbe indurre i leader cinesi, messi alle strette, a giocare la carta della guerra. Perché quando è in gioco la sopravvivenza del regime e dello Stato, tutto diventa possibile.

La Cina sa di essere un gigante vulnerabile, non così lontano dal punto di flesso. Forse esagera persino, nel foro interno, le minacce che potrebbero atterrarla. La diagnosi è stata certificata per tempo dai suoi massimi dirigenti. Un sintetico sguardo d’insieme conferma l’allarme. Il problema non è il calo del tasso di crescita del prodotto interno lordo, comunque attestato attorno alla misura prestabilita (+6,5%), quanto il modello che lo ha finora sorretto. Ovvero i grandiosi investimenti pubblici a sostegno di manifattura e infrastrutture. Volumi intenibili che alimentano un ciclo perverso: per drogare la crescita si gonfia il debito totale, che oggi supera di due volte e mezzo il pil. E si insiste su un modello energetico obsoleto, tuttora sbilanciato sul carbone, a spese dell’ambiente e della salute della popolazione, mentre si proiettano le aziende cinesi a caccia di risorse e mercati in giro per il mondo. Con relativa sovraesposizione geoeconomica e geopolitica della Cina.

Pechino si offre così alle puntute contromisure di concorrenti e avversari, sicché la deriva protezionistica volge a farsi globale. Ne deriva la crisi di fiducia dei mercati, accentuata dalle storture del sistema finanziario cinese e confermata dalla corposa fuga di capitali. Tanto che negli ultimi anni gli investimenti cinesi in terra straniera hanno superato quelli esteri in Cina.

Soprattutto, resiste lo strapotere delle opache aziende di Stato, dove politica ed economia si sposano sotto il segno della corruzione sistemica. Le disuguaglianze sociali restano acute, con un terzo della ricchezza nazionale in mano all’1% della popolazione. Permane la partizione geoeconomica fra le depresse province nord-occidentali e le scintillanti metropoli sud-orientali (peraltro soffocate dallo smog), connesse via mare ai mercati mondiali. Quanto al welfare, appena l’ombra. La popolazione tende a ridursi ma invecchia. Nel 2040 il rapporto fra lavoratori e pensionati – oggi un invidiabile 5 a 1 – crollerà, attestandosi sull’1,6 a 1. Le faglie geopolitiche interne (Xinjiang, Tibet, Hong Kong) non sono in sicurezza, mentre la provincia ribelle di Taiwan, vellicata dalle sirene americane e giapponesi, potrebbe essere tentata dal decretare in punto di diritto l’indipendenza di fatto. Insomma: il modello economico che ha finora assicurato la vita del regime potrebbe domani sancirne la morte.

Allo stesso tempo e malgrado tutto, la taglia della Cina è formidabile e continua a espandersi. Ma quel che le serve non è quantità, è qualità. Le patologie che ne affliggono l’organismo sarebbero più agilmente trattabili da uno Stato di dimensioni analoghe ma dotato di un regime politico meno dipendente dalla performance economica. Decisivo per la Repubblica Popolare Cinese è adeguare le istituzioni allo sviluppo della società. Solo in quanto espressione del sentire diffuso potranno diventare meno insicure di sé, dunque più aperte e trasparenti. E per conseguenza rassicurare il mondo sulle intenzioni di Pechino, oggi imperscrutabili quanto il regime che le elabora.

È però da escludere l’importazione della democrazia occidentale, in profonda crisi proprio nei paesi che ne hanno fatto una bandiera identitaria, quando non un marchio universale, da esportazione. La Cina non diventerà mai America gialla. Un impero plurimillenario non può copiare modelli altrui. Ma non può nemmeno sopportare a tempo indefinito il regime al potere solo perché è al potere.

Trump e Xi Jinping sono dunque in rotta di collisione. Ma la loro navigazione è a vista. Un grande compromesso sino-americano non è affatto scontato. E comunque sarebbe preceduto da una fase di grave turbolenza, nella quale lo slittamento verso il ricorso alle armi non potrebbe essere escluso. Sullo sfondo resta infatti il duello fra il Numero Uno in carica e il suo aspirante successore. La posta in gioco è suprema: questo XXI secolo sarà il secondo secolo americano o il primo cinese?