Se Trump tornasse alla Casa Bianca

Negli Stati Uniti Joe Biden arranca mentre il partito repubblicano riacquista vigore e guarda con ottimismo alle elezioni di novembre
/ 13.06.2022
di Federico Rampini

Con Joe Biden che fatica a raggiungere il 40% di consensi nei sondaggi, e il partito repubblicano favorito per la riconquista della maggioranza parlamentare alle elezioni di novembre, un ritorno di Donald Trump (nella foto) alla Casa Bianca non è un’ipotesi remota. L’armata dei suoi elettori – pur perdendo contro Biden lui ne conquistò 11 milioni in più dal 2016 al 2020 – ha nostalgia di lui. Rimpiangono il boom economico durante la sua presidenza (pre-Covid, certo). Considerano sacrosante le scelte che fece per penalizzare la Cina con i dazi e per limitare l’immigrazione. Nella pandemia fu lui a dare aiuti per la scoperta e produzione dei vaccini, anche se poi si spaventò per la diffusione dei no-vax nella sua base e cominciò a girare senza mascherina. E la guerra in Ucraina? Lui non ripudia il filo diretto che ebbe con il presidente russo, ma si vanta di averlo tenuto a bada. «Lo minacciai come non era mai stato minacciato prima, per dissuaderlo dall’invadere l’Ucraina. Dobbiamo vergognarci per non aver saputo fermare questa guerra». Cioè: deve vergognarsi Biden. «Se alla Casa Bianca ci fossi io, e Putin osasse ancora parlare di nucleare, gli risponderei: non ci provare, siamo molto più forti di te». Dopotutto, sottolinea, le due invasioni di Putin in Crimea nel 2014 e in Ucraina nel 2022 sono avvenute sempre con un democratico alla Casa Bianca.

I problemi che portarono Trump alla Casa Bianca nel 2016 sono ancora tutti lì, come documenta la giornalista Farah Stockman nel libro-inchiesta American made: what happens to people when work disappears. Nel dopoguerra il «sogno americano» era una realtà: il 90% dei giovani nati negli Stati Uniti avevano la certezza di un lavoro e di un reddito migliori rispetto ai propri genitori. Oggi questo è vero solo per il 50% dei giovani, gli altri devono rassegnarsi a stare peggio delle generazioni precedenti. La teoria della «grande sostituzione» (i bianchi messi in minoranza dagli immigrati) viene evocata tra le farneticazioni deliranti dell’estrema destra. Ma la classe operaia black è stata essa stessa l’oggetto di una sostituzione reale, con operai cinesi in Cina o messicani negli Usa; non a caso il protezionismo di Trump gli ha consentito di raddoppiare la sua quota di elettori ispanici e afroamericani da un’elezione all’altra. Nel biennio in cui il Muro col Messico e la pandemia hanno ridotto l’immigrazione, i salari operai sono cresciuti come non accadeva da quarant’anni, confortando le ragioni del voto popolare per Trump. L’establishment della sinistra globalista preme su Biden perché riapra le frontiere, sia al made in China sia agli immigrati. Sarebbe un’ulteriore emorragia di voti tra i lavoratori, e non solo bianchi. La rappresentanza sociale dei due partiti si è rovesciata: ormai il partito repubblicano è una coalizione fatta da classe operaia e stati del sud, mentre i democratici fanno il pieno tra la tecno-élite manageriale e intellettuale delle due coste, e le minoranze etniche. Durante il secolo da Abraham Lincoln a Franklin Roosevelt a John Kennedy fu vero il contrario.

Biden vorrebbe evitare di regalare per sempre la classe operaia alla destra. Però i sospetti contro il «complotto delle élite progressiste» si sono rafforzati da quando Trump è censurato dal capitalismo digitale su tutti i principali social media. È scomparso da Twitter e Facebook, e non solo. «Che Trump sia candidato alla Casa Bianca nel 2024 oppure no, il trumpismo dentro il partito è più forte che mai», sostiene lo stratega dei repubblicani Ken Spain. Questo ha una conseguenza inquietante per la tenuta delle istituzioni e la solidità della democrazia americana. Quando Trump non è in giro per gli States a far campagna in favore di qualche candidato a lui fedele, come passa il tempo? «Sto scrivendo – ha rivelato – un libro che intitolerò Il crimine del secolo, su come hanno rubato le elezioni del 2020». Proprio così, la teoria della grande truffa elettorale è viva e vegeta: nella sua propaganda e nella sua base.

Il partito democratico moltiplica le azioni che alimentano la psicosi da stato d’assedio fra i trumpiani. Un tema rovente è l’insegnamento anti-razzista nelle scuole pubbliche, trasformato da una leva di professori militanti in una demonizzazione dei bianchi, all’insegna della Critical race theory che denuncia il «razzismo sistemico». Durante la pandemia, con la didattica a distanza, molti genitori hanno scoperto che i propri figli venivano colpevolizzati. L’altro cavallo di battaglia della sinistra radicale è l’identità sessuale fluida, che partendo dai diritti dei transgender si allarga fino a combattere ogni identificazione sessuale, imponendo pronomi neutri plurali. L’ambientalismo a oltranza che impedisce di aumentare l’estrazione di gas e ostacola per motivi paesaggistici perfino centrali idroelettriche o eoliche, in piena crisi energetica fornisce altri argomenti alla destra. Biden e il centro moderato del partito sono penalizzati da una polarizzazione speculare a quella dei repubblicani. Così come i fanatici del trumpismo continuano a esercitare un’influenza forte a destra, anche a sinistra gli elettori più mobilitati per la selezione dei candidati sono spesso le frange radicali.

La stagione delle primarie ha dato questa indicazione: la partecipazione al voto dei repubblicani è in aumento, quella dei democratici in leggero calo. Tuttavia una novità ha ridato speranza alla sinistra, per fermare la rimonta repubblicana nel prossimo Congresso. È la fuga di notizie dalla Corte suprema, secondo cui la maggioranza dei giudici sarebbe pronta a revocare il diritto costituzionale all’aborto (che risale a una sentenza del 1973). Trump è il vero regista di questo probabile ribaltone. Le sue nomine di tre giudici conservatori alla Corte suprema sono state decisive per cambiare gli equilibri. Trump non è mai stato un vero anti-abortista, è un ex-democratico senza una fede religiosa, con una serie di matrimoni e relazioni extra-coniugali che fecero la felicità dei tabloid. Però ha mantenuto la promessa fatta nella campagna elettorale del 2016, di nominare giudici anti-abortisti. Ora su quel tema è cauto, perfino reticente. Dal suo entourage trapela che l’ex presidente teme di perdere quota nell’elettorato femminile. I democratici puntano proprio su questo per ribaltare le previsioni sull’appuntamento elettorale di novembre. Però l’eventuale defezione di una fascia di donne – soprattutto le laureate del ceto medioalto – può essere compensata dalla mobilitazione compatta della base religiosa: cattolici conservatori, evangelici, dove si ritrovano anche tante elettrici ispaniche e afroamericane.

Un’osservatrice acuta della destra americana è Peggy Noonan. Autorevole opinionista conservatrice (ma non trumpiana), Noonan fu consigliera di Ronald Reagan. Lei è convinta che nella base del partito «c’è una gran voglia delle politiche trumpiane, ma non necessariamente che sia lui ad applicarle, perché Trump è il caos, e i repubblicani devono guardare al futuro». L’alternativa più forte rispetto a un Trump II oggi si chiama Ron DeSantis. L’italo-americano che governa la Florida ha fatto di questo stato l’anti-California per eccellenza: meno tasse, meno burocrazia, meno spesa pubblica, pochi homeless. L’esodo di popolazione dalla California alla Florida lo sta premiando e ne fa una star. Sui temi valoriali – l’indottrinamento anti-bianco nelle scuole, le identità sessuali fluide insegnate ai bambini, l’aborto – DeSantis è perfino più intransigente di Trump. In compenso non si porta appresso il bagaglio ingombrante dell’ex presidente, a cominciare dal carattere.