Se ogni scricchiolio fa trasalire

Cinque anni fa un violento terremoto devastò Norcia, nel centro Italia, qualche mese dopo la tragedia di Amatrice. La ricostruzione è in alto mare ma la gente è tornata a vivere, lottando per recuperare ciò che ha perso
/ 18.10.2021
di Romano Venziani

Uno scheletro metallico abbraccia i resti della Basilica di San Benedetto a Norcia, in Umbria. La facciata della chiesa, imbrigliata da un intrico di ponteggi, è l’unico frammento rimasto più o meno intatto e si alza contro un cielo che, in questi giorni d’autunno, è di un azzurro limpido a tratti impastato con il grigio di nuvoloni, che filano via veloci spinti dal vento. «Dovrebbero ricostruire le case, prima della chiesa. Tanto lì dentro non ci va più quasi nessuno». A parlarmi è una donna anziana, piccolina, ben vestita, se non fosse per quella giacca che le cade dalle spalle, di ottima fattura, certo, ma di foggia maschile e tremendamente grande, da coprirla tutta come un paltò. «Siamo abituati ai terremoti», dice. «La nostra terra trema spesso. Da bambina, quando succedeva, correvamo tutti a buttarci nel lettone, con mamma e papà. A volte lui ci faceva rannicchiare sotto il tavolo di cucina, mentre la casa era scossa da cima a fondo, con un tintinnare di piatti e bicchieri negli armadi. Ma un terremoto così non l’avevo mai visto». Erano le 7 e 41 del 30 ottobre 2016. La gente di Norcia, cittadina con poco meno di 5 mila abitanti, viene svegliata da uno spaventoso sisma, magnitudo 6.5 sulla scala Richter, uno dei più violenti in Italia da oltre un secolo, percepito in buona parte della Penisola. Un paio di mesi prima, il 24 di agosto, un’altra scossa, meno forte, ha raso al suolo Amatrice, a pochi chilometri da qui, generando un’importante sequenza sismica, che ha coinvolto 140 Comuni e 600 mila persone. Più di 300 i morti, altrettanti i feriti, 40 mila gli sfollati.

A Norcia, in quell’ultimo scorcio di ottobre di 5 anni fa, regnava la paura, la gente fuggiva o pregava in piazza di fronte ai resti della basilica e alle case ridotte in frantumi. I danni alle abitazioni, agli edifici commerciali e al patrimonio culturale sono stati ingenti, ma non si sono registrati morti. Unica ferita grave, una donna, che ha riportato un trauma cranico gettandosi da una finestra, temendo il peggio. «Non ci sono state vittime perché, dopo il terremoto di agosto ad Amatrice, si sono verificate altre scosse di crescente intensità», racconta Catia, proprietaria di un negozio. Con un gruppo di altri commercianti si è installata in una delle casette di legno, allineate sotto una fila di vecchi platani, fuori Porta ascolana, in attesa di poter tornare in città. «Si è capito subito che non erano scosse di assestamento e abbiamo intuito che si preparava qualcosa di grosso. Per questo le autorità hanno evacuato la popolazione ed è stata la nostra fortuna, se vogliamo parlare di fortuna».
Cinque anni dopo il sisma, a parte lo sgombero delle macerie, un po’ di crepe rabberciate alla bell’e meglio, la messa in sicurezza degli edifici e le impalcature a tenere in piedi le costruzioni più colpite, la ricostruzione è ancora in alto mare.

Nelle «zone rosse», sbarrate dalle staccionate, le erbacce crescono tra sassi e calcinacci, e il tutto lascia presagire tempi lunghi. «Purtroppo la burocrazia italiana rallenta la ricostruzione», riprende Catia. «Tante cose non si capiscono. Dove vivo io, ad esempio, una parte della casa è considerata zona rossa, quindi inabitabile, un’altra è parzialmente abitabile, mentre una lo è completamente e io continuo a viverci. I lavori di consolidamento sono stati eseguiti ma il progetto per il rifacimento aspetta ancora l’approvazione dopo 5 anni». La scossa più forte è entrata a cuneo nel paese, quella mattina di ottobre, come un pugno possente che ha distrutto ciò che ha colpito, le case e le chiese, e ha lasciato intatto o con pochi danni quello che stava attorno. Nulla ha potuto, San Benedetto, patrono della cittadina della Valnerina e dell’Europa, contro la forza devastatrice del sisma. Se molti edifici si sono salvati lo si deve alle misure messe in atto dopo altri movimenti tellurici, come quello del 1997 e l’altro, più grave, del 1979. Ma già nel 1730 il borgo aveva adottato misure antisismiche, vietando la costruzione di case oltre il secondo piano.

Non l’hanno mai lasciata in pace i terremoti, Norcia. La cittadina ci deve convivere o almeno deve convivere con la loro ombra, che si aggira come un fantasma nei viottoli e s’infila subdola nelle case, dove ogni scricchiolio, ogni rumore, ogni tremito di lampada, fa trasalire. Come a metà nel luglio scorso, quando nel borgo umbro ci sono state altre due «schicchere» (qui le chiamano così le scosse) di magnitudo 2.5 e 3.6 che, pare, siano collegate alla sequenza sismica cominciata nell’agosto del 2016 e incredibilmente non ancora conclusa. Le autorità regionali, visti i tempi lunghi della ricostruzione, hanno deciso di mantenere comunque in vita i paesi toccati dal terremoto e di riaprire poi progressivamente le zone rosse, per evitare che borghi e città si svuotassero della popolazione, che ne costituisce l’anima. Per questo nelle vie del centro storico la vita continua, nonostante tutto. È domenica e i ristoranti sono pieni, la gente parla, si chiama, ride spensierata. I negozi sono aperti e ricamati di insegne che pubblicizzano la bontà del tartufo nero di Norcia e dei migliori salumi locali, dal prosciutto al culatello, dalle salsicce ai capicolli. Frotte di turisti ciondolano qua e là guardando le vetrine.

Affacciata sulla Piazza San Benedetto, accanto alla basilica, la torre del palazzo municipale è stata restaurata e nel dicembre dello scorso anno sono tornate a suonare le sue campane. Lì vicino incontro Vincenzo, proprietario di un ristorante. «Avremmo potuto andarcene, rifarci una vita altrove», dice. «Ma le nostre radici sono qui, in questa terra. Ne abbiamo superate tante, di disgrazie, e anche il terremoto con cui ci tocca convivere. I norcini sono così, attaccati alle loro origini, non si danno mai per vinti, ma lottano per ricostruire ciò che hanno perso. Guardi, Norcia è la città del tartufo nero e per tradizione ogni anno si fa una grande festa in suo onore. Dopo il terremoto, il sindaco ha deciso che la festa l’avremmo fatta comunque, nel febbraio del 2017, per mostrare che la popolazione ha il coraggio di ricominciare e la speranza nel futuro. Mi piace ricordare una frase detta da uno di noi, intervistato in tivù dopo il terremoto: noi viviamo in un paradiso e queste tragedie ce le ha mandate Dio per ricordarci che dobbiamo meritarcelo».

Ritrovo la signora con la giacca-paltò, che se ne sta ancora lì, con lo sguardo fisso sull’enorme voragine, dove un tempo c’era la navata di San Benedetto. Mi vede e riprende a parlare, come se non me ne fossi mai andato via. «La mia casa è nella zona rossa e io vivo in una delle casette messeci a disposizione dal Comune, al di fuori delle mura. Ma ogni giorno torno qui, dove sono nata e dove ci sono le mie radici, i miei ricordi, la mia vita. Poi mi indica con un gesto della mano una casa bassa, con portone e finestre schermate da robuste grate, all’imbocco di una via laterale. Guardi, l’ufficio di mio marito è rimasto intatto, neanche un graffio. Faceva il ragioniere. È mancato da poco». Me ne vado, accompagnato dallo sguardo perso della signora con la giacca-paltò, che tutti i giorni torna nel borgo, per ritrovare il calore della sua gente. Vi ritorna perché anche lei vuole mantenerlo vivo, come lo vuole Catia, che non ha abbandonato la sua casa rattoppata quel tanto che basta, come lo vogliono Vincenzo e i suoi clienti che, fin dai primi giorni, sono continuati a venire nel suo ristorante. «Venivano qui anche quando faceva freddo o pioveva», ricorda l’uomo. «Mangiavano con addosso il cappotto ma tornavano sempre e per me è stata una grande emozione scoprire tanta solidarietà. Non me lo sarei mai immaginato». E ritorna al lavoro.

Della cittadina cresciuta ai piedi dei Monti Sibillini, lì dove la terra dell’Umbria inizia a sfumare in quella marchigiana, serbo profonde e toccanti impressioni. Mi ha sorpreso, quel sentimento misto di rassegnazione e determinazione che ho letto nei pensieri e nelle parole di molti norcini. Rassegnazione di fronte all’ineluttabilità dei fenomeni naturali, determinazione a non lasciarsi abbattere. Nonostante i segni evidenti della tragedia, Norcia ha conservato la sua bellezza e soprattutto la sua dignità. Mentre attraverso Piazza Vittorio Veneto un nugolo di bimbi chiassosi gioca, correndo attorno al Monumento dei caduti. È la loro gioia non la tristezza che accompagna i miei passi, unitamente ad un sorprendente senso di fiducia e di speranza nelle potenzialità e nelle risorse dell’animo umano. Intanto il sole inizia a sfilare via e la luce della Valnerina si tinge di rosso, quasi fosse una promessa di un domani migliore.