«Se un attacco nel cuore dell’Europa ci ha colto impreparati, è perché eravamo impegnati nella nostra autodistruzione», sostiene Federico Rampini – collaboratore di «Azione» ed editorialista del «Corriere della Sera» – in Suicidio occidentale (Mondadori). «Il disarmo strategico dell’Occidente era stato preceduto per anni da un disarmo culturale. L’ideologia dominante (…) ci impone di demolire ogni autostima, colpevolizzarci, flagellarci. Secondo questa dittatura ideologica non abbiamo più valori da proporre al mondo e alle nuove generazioni, abbiamo solo crimini da espiare». Questa sorta di «esperimento estremo», dice l’autore, ha preso il via negli Stati Uniti e starebbe contagiando anche il Vecchio continente.
Quella di Rampini è una chiave di lettura alternativa alla crisi in atto, che attribuisce tante delle sue manifestazioni all’avanzata di una nuova forma di pensiero unico, «solo in apparenza progressista, che cancella i disobbedienti privandoli del diritto di parola, denuncia pubblicamente persone accusate di avere offeso qualche valore sacro del politically correct e lancia campagne di boicottaggio contro i reprobi». Il giornalista viaggia avanti e indietro nel tempo per argomentare le proprie opinioni, talvolta citando le sue personali esperienze, negli Usa come in Cina, e gli autori più diversi, da Hannah Arendt (L’origine del totalitarismo) a J.K. Rowling (Harry Potter) passando per Socrate e altri notevoli pensatori e pensatrici (per esempio la canadese Margaret Atwood, l’afroamericano Shelby Steele e Roya Hakakian, di origine iraniana).
Si scaglia con forza contro gli estremismi. Contro la brutalità della destra trumpiana, certo, ma soprattutto contro l’attacco alla democrazia americana sferrato da quella che definisce «sinistra illiberale». Un attacco «di gran lunga più potente», perché l’influenza culturale di questa fazione «è maggiore e si estende alle istituzioni centrali della società americana»: università, media, colossi digitali, industria dell’entertainment, ecc.
Nei vari capitoli Rampini affronta i tanti ambiti in cui si esplica «il suicidio», appunto. Si avventura tra i «neopuritani» del politicamente corretto e i «fanatici» della comunità Lgbtq o dell’anti-razzismo («oggi negli Stati Uniti avere la pelle bianca sta diventando un handicap, invece essere membro di minoranze etniche ti mette dalla parte dei Giusti nella nuova nomenclatura dominante»). Poi affronta quella che chiama la «deriva antirazionale dell’ambientalismo» («proprio coloro che si dichiarano seguaci della scienza danno credito a scenari apocalittici che con la scienza non hanno nulla a che vedere»), la questione della burocrazia dilagante che rallenta decisioni e processi, infine il problema dello strapotere di social e colossi digitali, con la disinformazione che permea ogni aspetto della nostra vita.
Intanto – osserva Rampini – si sta facendo largo un modello alternativo. «Altrove, molto lontano da qui, le mamme tigri asiatiche stanno allevando dei guerrieri: allenati a considerare la scuola e l’università come luoghi di un tirocinio duro, senza coccole né indulgenze; fieri di essere cinesi, orgogliosi della loro storia patria. Quando una parte di quei giovani cinesi – l’élite privilegiata – va a studiare nelle università americane, il risultato è clamoroso. Lungi dall’assorbire influenze occidentali, lo spettacolo cui assistono nei campus li rafforza nelle loro certezze: l’Occidente è malato, è una civiltà immonda. Lo dicono i loro stessi coetanei americani, perché non credergli?». Anche gli autocrati delle nuove potenze imperiali – come Xi Jinping e Vladimir Putin – sanno che ci sabotiamo da soli, sottolinea l’autore, e agiscono di conseguenza. Chissà se ci rimane qualche speranza…