Se la vita di una donna vale pochi spiccioli

In Pakistan oltre il 90 per cento della popolazione femminile è vittima di violenza. Il delitto d’onore è uno dei pilastri della società
/ 07.06.2021
di Francesca Marino

Si chiama, o più probabilmente si chiamava, Saman. Aveva 18 anni, e di lei non si sa più nulla. La ragazza, di origine pakistana, aveva chiesto aiuto ai servizi sociali per ben due volte, per sfuggire a un matrimonio combinato dalla famiglia. Viveva in una struttura protetta ma era tornata a casa, fidandosi della famiglia, per recuperare alcuni documenti. Da allora si sono perse le sue tracce. In seguito i suoi genitori sono tornati in fretta e furia in Pakistan per un presunto lutto. Di lei, per il momento, resta solo un post su Instagram dei suoi piedi che calzano scarpe da tennis e quasi danzano sulla strada. Hashtag #italiangirl.

Prima di Saman, in Italia, c’era stata Hina, ammazzata dai genitori perché, come Saman, voleva essere libera di studiare e di scegliere la propria vita. Come Sana, riportata in Pakistan da Brescia con un trucco e sgozzata dal padre e dal fratello. Come Farah, che è stata più fortunata perché è stata riportata in Italia dall’Ambasciata. Avevano ucciso il bambino che aspettava da un ragazzo italiano ma lei era ancora viva. O Memoona, che ha chiesto aiuto alla sua scuola ed è stata riportata in Brianza. E la lista potrebbe essere molto più lunga. Il copione è, più o meno, sempre uguale: la ragazza vuole studiare, lavorare, frequentare i coetanei, sposare un ragazzo di sua scelta. Si inventa un matrimonio o un funerale in Pakistan e si lascia là la ragazza. Per essere data in moglie contro la sua volontà o, più spesso, per essere uccisa quasi impunemente. Perché, in Pakistan, quella contro le donne è una vera e propria guerra combattuta con l’arma letale del delitto d’onore. Circa tre donne vengono uccise ogni giorno per motivi legati all’onore familiare e più di mille donne l’anno muoiono per delitti travestiti da «incidenti domestici». Ogni due ore una donna viene rapita, seviziata o stuprata. Ogni otto ore qualcuna è vittima di uno stupro di gruppo. Più del novanta per cento della popolazione femminile è vittima di qualche forma di violenza da parte dei famigliari.

Il comportamento femminile considerato come disonorevole comprende relazioni extraconiugali presunte o reali, la scelta di un marito contro il volere dei genitori, la richiesta di divorzio. O, anche, l’essere stata vittima di uno stupro. Stupro che nel 2007 è stato finalmente considerato dal Parlamento un delitto da codice penale e non un’offesa contro la morale, punibile secondo l’ordinanza Hudood (la quale ha lo scopo di implementare la Sharia, la legge islamica). Secondo l’Hudood la prova dello stupro è a carico della donna che lo subisce. La vittima deve presentare, per provare di essere stata violentata, quattro testimoni musulmani e di sesso maschile. Altrimenti viene processata d’ufficio per adulterio, crimine per cui la stessa legge prescrive la lapidazione.

Secondo l’ordinanza Hudood, in generale, la testimonianza di una donna vale metà di quella di un uomo e l’adulterio, o il sesso prematrimoniale, vengono considerati un crimine contro lo Stato e puniti di conseguenza. Per i rappresentanti dei partiti islamici tradizionalisti, inoltre, non esiste la violenza domestica. Attribuire a una donna il diritto di denunciare il marito o di chiedere il divorzio in caso di maltrattamenti, mina alle fondamenta i sani principi su cui si basa la società pakistana. La prima donna che è andata a registrare una denuncia per violenza domestica a Lahore è stata rimandata a casa perché le botte, se non arrivano alla tortura, costituiscono parte integrante della normale dialettica di coppia. Non ci si deve quindi stupire se gente come i genitori di Hina, di Saman o di Sana pensa di poter regolare «alla pakistana» le proprie «questioni d’onore» anche in Italia o all’estero. E se la famiglia tutta congiura nel coprire i colpevoli.

Il delitto d’onore è uno dei pilastri della società pakistana. Nel 2016 aveva fatto scalpore il caso di Qandeel Baloch, ammazzata dal fratello per aver disonorato la famiglia. Qandeel era una influencer e appariva in televisione o sui social media truccata e in «abiti succinti». La famiglia ha supplicato i giudici di perdonare il suo assassino in base alla legge, emendata dopo la morte della giovane, che permette all’assassino di non scontare alcuna pena pagando alla famiglia della vittima il «prezzo del sangue». Quanto vale in Pakistan la vita di una donna? Pochi spiccioli, pagabili da chiunque. E non si tratta di casi isolati o circoscritti a settori disagiati della società.

Il premier Imran Khan di recente è andato in Tv a dire che l’incremento esponenziale dei casi di stupro (impuniti) nel Paese è da attribuirsi ai «valori osceni» propagandati dall’India, dall’Occidente e dai film di Hollywood. Aggiungendo che se le donne osservassero rigidamente le regole islamiche in fatto di abbigliamento e condotta, e cioè la segregazione totale, non ci sarebbero stupri. D’altra parte Imran Khan si è anche rifiutato di confutare la teoria di un mullah locale che considera il Coronavirus una punizione divina per i «misfatti» compiuti dalle donne. Quelle relativamente poche coraggiose che in Pakistan marciano ogni 8 marzo al grido di «non c’è onore nei delitti» e di «mera jism, meri marzi» (mio il corpo, mia la scelta). Quelle che, per la libertà di scegliere, rischiano ogni giorno la vita. Come Hina, Saman, Sana, Farah e Memoona.