«“Prima di partire prendiamo delle pastiglie per non restare incinta. Sappiamo che durante il viaggio potremmo essere violentate”. Me lo ha detto una ragazzina proveniente dall’Eritrea da poco giunta in Svizzera. Parole difficili da dimenticare. È tragico. Nonostante la consapevolezza dei gravi pericoli che corrono, le persone migranti si incamminano lo stesso verso l’Europa. Perché la disperazione, la voglia di salvarsi e riscattarsi sono più forti della paura». A parlare è Mario Amato, direttore di Soccorso operaio svizzero Ticino, tra i relatori della conferenza «Alle frontiere della violenza» che si terrà il 1. dicembre a Bellinzona (dalle 18 all'Auditorium dell’Istituto cantonale di economia). Conferenza promossa dalla rete Nateil14giugno, Comundo e SOS Ticino, che si soffermerà soprattutto sul destino delle donne migranti nel nostro Paese.
Durante il viaggio di espatrio – che è spesso molto lungo – donne, ma anche uomini e minori a volte non accompagnati assistono alle violenze più atroci e le subiscono. «Alcune di queste persone hanno voglia di raccontare le loro esperienze – sottolinea il nostro interlocutore – ma purtroppo queste narrazioni non hanno nessuna influenza sulla domanda di asilo perché i fatti non si sono prodotti nel Paese di origine». Senza contare il discorso legato alle situazioni di stress post-traumatico. «Gli shock accumulati rimangono impressi nella mente della persona migrante, sono presenti durante la sua permanenza in Svizzera. Spesso questi traumi emergono subito all’arrivo, lo si vede coi più piccoli, a volte anni più tardi. Nessuno esce indenne da simili tragedie». Una certa sensibilità si è sviluppata negli anni e l’attuale procedura di asilo – entrata in vigore nel 2019 – prevede che nei Centri federali di asilo siano presenti delle postazioni mediche (medic help) tramite le quali è possibile prendere contatto con degli psicologi che si adoperano per alleviare questa sofferenza, prenderla a carico. Spesso però si tratta di un granello di sabbia nel deserto.
Un ulteriore aspetto da considerare, continua Amato, è il fenomeno della violenza di genere e domestica che riguarda i nuclei famigliari di espatriati (come del resto anche numerose coppie «autoctone»). «Ma le donne migranti, come i loro bambini, sono in una posizione ancora più fragile proprio in quanto lontani dalla loro casa. Per loro è ancora più difficile reagire poiché non hanno accanto famigliari o amici con cui potersi confidare. A volte è l’operatore sociale a diventare una valvola di sfogo. Ci sono anche donne che una volta arrivate in Svizzera – un Paese occidentale dove godono di maggiori libertà – prendono coscienza di quelli che sono i diritti legati all’appartenenza di genere, diritti che nel Paese di origine non colgono o non possono reclamare. Da qui scaturiscono situazioni molto complesse».
Un altro tema che verrà affrontato nel corso della serata – afferma l’intervistato – è quello dei ricongiungimenti famigliari. Il caso di un cittadino straniero, proveniente dall’Ue o da un Paese terzo, che arriva nella Confederazione per motivi di lavoro, e la moglie, magari i figli lo raggiungono. La legge prevede il permesso di soggiorno per il coniuge finché dura l’unione. Solo in alcuni casi il diritto sussiste anche se il matrimonio finisce. «Quando, per esempio, l’unione coniugale termina a seguito di una situazione di violenza domestica, che però deve essere dimostrata, la moglie può restare in Svizzera. A volte però gli abusi sono difficili da provare e poche hanno la forza di chiedere aiuto, di denunciare. Oltretutto l’interpretazione di questa norma è restrittiva: non tutte le forme di violenza domestica portano infatti al riconoscimento del diritto del mantenimento del permesso perché la violenza deve raggiungere una certa intensità…». Si può immaginare con quali risultati.
Parteciperà alla serata «Alle frontiere della violenza» anche Corinne Sala, direttrice della sede nella Svizzera italiana di Comundo, un’Ong svizzera di cooperazione allo sviluppo, la quale conosce molto da vicino il Nicaragua e più in generale le situazioni legate ai movimenti migratori dal Sud America agli Stati uniti. «Tante donne fuggono dai Paesi latinoamericani a causa della violenza della società, della violenza intrafamigliare e delle discriminazioni: in quanto donna non riescono ad esempio accedere all’educazione, a trovare lavoro. E poi si ritrovano in un Paese straniero, isolate, ma le violenze e le discriminazioni non finiscono». Pensiamo poi agli effetti delle migrazioni nei Paesi di origine: quando la donna viaggia senza i figli, deve affidarli a parenti o conoscenti. Nella maggior parte dei casi li lascia alla nonna: di nuovo il lavoro di cura a carico alle donne. Inoltre, se non c’è la madre a proteggerli, i bambini rimangono più esposti al rischio di abusi intra ed extrafamigliari. Ricevono magari denaro, certo, ma non godono della protezione del genitore». Quindi violenza alla base, durante il viaggio e poi una volta arrivate a destinazione. La migrazione – sottolinea la nostra interlocutrice – è diventata un tema negli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 (obiettivi che dovranno essere realizzati entro il 2030 da tutti i Paesi Onu) la quale guarda al migrante e alla migrante come attori dello sviluppo sia nel Paese d’origine sia nel Paese di destinazione. «Il problema: sono ancora troppo poco protetti per poter sviluppare un potenziale positivo per loro stessi e per i due Paesi coinvolti. Si spera che in un prossimo futuro le cose possano cambiare anche grazie alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (Convenzione di Istanbul) che però la Svizzera ha firmato con alcune riserve, che riguardano proprio le donne migranti…».
Alla conferenza del 1. dicembre parteciperanno anche Monica Marcionetti, responsabile del servizio MayDay; Anne Schmid, coordinatrice della Piattaforma svizzera contro la tratta degli esseri umani; l’avvocata Rosemarie Weibel e Simona Lanzoni nel Gruppo di esperti sulla violenza contro le donne e la violenza domestica (Grevio) che ha il compito di vigilare e valutare le misure adottate nei Paesi aderenti alla Convenzione di Istanbul.
Se la disperazione è più forte della paura
Il primo dicembre a Bellinzona si parlerà di violenza nei contesti migratori e del destino delle donne espatriate nel nostro Paese
/ 29.11.2021
di Romina Borla
di Romina Borla