È crollato il prezzo della coca. Le leggi dell’economia vigono anche nel mondo dell’economia illegale, narcotraffico incluso. Se ci sono Paesi o grandi aree interne che di cocaina vivono, se l’export della coca è per loro la principale risorsa, non è difficile immaginare che il crollo del suo prezzo equivalga ad una crisi economica drammatica. Oggi in alcune aree della Colombia sta avvenendo quel che in Venezuela avvenne quando crollò il prezzo del petrolio alla fine del Governo di Hugo Chavez (2013-2017). Per immaginare le dimensioni del disastro basta fare due conti. Diversi analisti considerano che il volume del denaro legato al narcotraffico equivalga al 4,5% del PIL della Colombia. Consideriamo che si sbaglino per eccesso e immaginiamo una percentuale che è meno della metà: il 2% del PIL, quindi intorno ai 7 miliardi di dollari. Cosa succede se i prezzi della coca crollano fino a valere meno di un quarto del prezzo di partenza? Come prima cosa la quantità di soldi da ripartire lungo la filiera produttiva si riduce grosso modo in uguale proporzione. Un simile sprofondamento dei prezzi distrugge il volume d’affari. Dopo aver passato decenni a combattersi con argomentazioni affilate tra chi è favorevole a una politica di cancellazione delle coltivazioni di coca e chi invece consiglia di mutarle lentamente, oggi gli esperti colombiani dicono: «I prezzi bassi sono la più efficace politica possibile di cancellazione delle coltivazioni».
Una giornalista della rivista «Cambio» riporta: «Una volta un chilogrammo di cocaina e di pasta di coca costava 2,5 milioni di pesos colombiani, oggi nessuno è disposto a pagarlo più di 400 mila pesos. E non è detto che lo comprino». Il «Washington Post» ha segnalato già durante la pandemia che il prezzo della foglia di coca era calato del 70% nelle zone di produzione latinoamericane, principalmente Colombia, Perù, Bolivia. Le frontiere chiuse hanno avuto conseguenze sul trasporto della merce. Dalla Cina e dall’India le forniture di materie chimiche per i laboratori clandestini sono calate. Diminuite anche le quantità di carburante di contrabbando che attraverso le frontiere dello Stato Zulia (il Venezuela ha una struttura federale) passano dal Venezuela alla Colombia.
Ma perché il prezzo della foglia di coca (e quindi della cocaina) è crollato? Innanzitutto è aumentata la produttività per metro quadro coltivato. I 200mila ettari di territorio coltivato a coca – secondo le ultime stime – hanno visto crescere enormemente la loro quantità di prodotto. Gli esperti assicurano che è in corso un fenomeno di sovrapproduzione di coca sia in Colombia che in Perù che in Bolivia. In Perù le coltivazioni di coca avrebbero addirittura aumentato del 90% la loro produzione. A ciò va aggiunto un quantitativo variabile, ma ingente, di coca in arrivo da Venezuela, Ecuador e Honduras. La sovrapproduzione per un trafficante (e anche per un produttore) è un problema serissimo perché la cocaina, in quanto prodotto illegale, non si può tenere in magazzino senza moltiplicare i rischi di finire arrestati. Quindi l’unica via d’uscita per i narcos è vendere tutto il prodotto accumulato e solo dopo aver svuotato i depositi tornare a comprare materia prima. Per questo in molte regioni di produzione di foglie di coca i contadini sono costretti quasi a regalarla.
Questo succede nelle aree di Nariño, Cauca e del dipartimento di Catatumbo. Lì, con il crac dell’industria della coca, sta riprendendo quota il vecchio gruppo paramilitare delle Autodefensas Unidas de Colombia (AUC). Squadracce feroci, con rapporti complessi e mai del tutto svelati con settori potenti delle istituzioni colombiane, le AUC sono state l’esercito irregolare d’estrema destra con teschi e mimetica, in guerra per il controllo della coltivazione della coca con altri gruppi fotocopia e con i guerriglieri delle FARC e delle ELN, a loro volta in guerra con lo Stato colombiano, a loro volta di una violenza bestiale. L’ideologia, nella contesa, è ormai ferraglia dismessa. Negli ultimi decenni la guerra nella selva colombiana è servita ad aggiudicarsi fette di mercato nel narcotraffico. Ora i vecchi delle AUC hanno di nuovo la possibilità di riprendere il controllo di un territorio che rischia la fame.
A far arrivare nel Mediterraneo i carichi ci pensa da qualche anno la ’ndrangheta. Lei fornisce i nuovi broker. E si ipotizza stia inventando un nuovo modo di gestire i flussi di un materiale sempre illegale ma che costa meno e dà minore profitto. La mafia siciliana resiste e fa i suoi affari, ma non è più la regina del mercato come quando Cosa Nostra imperava e il grande business andava dai laboratori chimici che raffinavano eroina in Sicilia fino alle grandi piazze USA. La ’ndrangheta si è infilata nelle pieghe del giro vorticoso d’affari e si è fatta spazio, in silenzio, nel senso inverso: dall’America del sud all’Europa. Ha intuito negli anni Ottanta che il futuro era la cocaina, non l’eroina. Dispone di molti mezzi, ha uomini ovunque dove si produce coca. Stringe alleanze con i nuovi cartelli, si muove come un pesce nell’acqua tra i narcos locali che la trovano affidabile perché chiusa, impenetrabile, arcaica. Pare si attenda proprio dai broker della ’ndrangheta la decisione di strategia economica da adottare in Colombia per non lasciar inabissare il mercato illegale dopo il crollo dei prezzi.