Se il ceto medio affossa il clima

Crisi dell’ambientalismo – Che cosa lega la protesta francese contro le tasse ecologiche sui carburanti e l’esito deludente del vertice polacco Cop24 sulla lotta al cambiamento climatico?
/ 24.12.2018
di Federico Rampini

Un filo rosso unisce due eventi delle scorse settimane: la protesta sociale francese (parzialmente smorzata ma solo dopo le pesanti concessioni da parte del presidente Emmanuel Macron) e il summit chiamato Cop24 che si è tenuto nella città polacca di Katowice per fare il punto sulla realizzazione degli accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Il tema comune è la crisi dell’ambientalismo, entrato in rotta di collisione con varie correnti del populismo-sovranismo. La dinamica dei gilet gialli è la stessa che due anni fa contribuì allo shock politico nella più grande liberaldemocrazia occidentale. Il cedimento di Macron di fronte alla piazza è l’ultimo episodio di una vicenda mondiale, un antefatto è la vittoria di Donald Trump. Sullo sfondo c’è la difficoltà di praticare un ambientalismo che sia «socialmente sostenibile».

Lo capì Trump quando decise di diventare negazionista sul cambiamento climatico. Il suo messaggio in favore delle energie fossili catturò voti decisivi nel novembre 2016. Senza i minatori e i siderurgici delle Coal Country (regioni carbonifere) in Pennsylvania e Ohio, lui non sarebbe alla Casa Bianca. A quei «dinosauri» umani, relitti di un’altra èra industriale, Hillary Clinton non seppe proporre altro che un futuro da disoccupati. Per aver visitato quei luoghi, per avere incontrato e intervistato quegli elettori, so che non si fanno illusioni su quanto potrà durare l’uso del carbone. A loro basta che duri fino all’età pensionabile; che gli sia consentito di pagare le ultime rate del mutuo, le ultime rette universitarie dei figli. Un presidente che offre qualche anno di proroga alla morte annunciata, è il presidente che serve a loro. Chi gli parla di Green Economy in termini astratti, fingendo che l’Ohio sia la California, fingendo che un minatore 55enne si possa riconvertire con la bacchetta magica per farne un ingegnere di software, un inventore di app, un creatore di start-up, appartiene a una sinistra salottiera che a quei ceti ha smesso di parlare. Come Hillary.

I gilet gialli francesi non sono minatori né siderurgici, per lo meno non la maggioranza. Però la loro protesta è nata contro le tasse ecologiche sui carburanti. Il loro slogan contro Macron «tu parli della fine del mondo, noi dobbiamo arrivare alla fine del mese» rivela l’ansia di un ceto medio impoverito. Che spesso finisce col votare a destra, in America e in Europa.

Rinunciare alla lotta contro il cambiamento climatico sarebbe un suicidio: per il futuro dei nostri figli, per l’abitabilità del pianeta, per i nostri valori. Però le sinistre devono ancora trovare un’idea convincente di sostenibilità sociale, che parli a chi deve arrivare alla fine del mese. Che questa risposta non l’abbia trovata Macron non può stupire. Propaganda a parte Macron non è mai stato né europeista né di sinistra. A Ventimiglia, Bardonecchia e Claviere si è comportato come un sovranista qualsiasi. A picco nei sondaggi, molla la disciplina di bilancio europea. L’unica cosa su cui non cede, la riforma che più di ogni altra lo qualifica, è quella denunciata da tempo dallo studioso delle diseguaglianze Thomas Piketty: l’abolizione della patrimoniale sulle grandi ricchezze della finanza, il mondo della Banque Rothschild da cui proviene Macron. Ai gilet gialli il suo ambientalismo suona ipocrita. È lo stesso dei milionari californiani sulle Tesla elettriche da 135mila dollari.

Un fiasco sul clima «travestito» come un mezzo successo dal gergo diplomatico e dalle acrobazie sui comunicati: questo è un bilancio realistico del summit sull’ambiente in Polonia. Trump c’entra solo in parte. Vi ha contribuito la latitanza dell’Unione europea. A dirlo chiaro è un osservatore indipendente, l’indiano Harjeet Singh della ong Action Aid: «Il ruolo dell’Ue è stato molto deludente. Era una conferenza climatica sul suo territorio, perché non si è presa le sue responsabilità?» Il giudizio sulla disunione europea è inevitabile. Macron, che a suo tempo si fregiò del titolo di «campione della lotta al cambiamento climatico» assegnatogli dall’Onu, ha disertato il summit avendo appena rinunciato alla sua carbon tax. La Germania, malgrado l’avanzata elettorale dei suoi Verdi, è altrettanto inadempiente: la sua transizione dal carbone procede a rilento e molte centrali elettriche tedesche continuano ad essere super-inquinanti; per non parlare dello scandalo Dieselgate che ha macchiato il suo «campione nazionale» Volkswagen, protagonista di una truffa criminale sulle emissioni. Il Regno Unito è assorbito in modo ossessivo da una sola cosa, Brexit. Anche in Italia la pasticciata vicenda dell’ecotassa sulle nuove auto dimostra che l’agenda ambientalista è la prima ad essere sacrificata.

Eppure l’Europa aveva un’opportunità unica di riempire il vuoto di leadership lasciato da altri. Malgrado le sue contraddizioni e i suoi ritardi nel rispettare gli impegni, l’Unione europea è l’unico blocco economico che ha visto scendere le sue emissioni carboniche quest’anno; mentre continuavano a crescere quelle americane e ancor più quelle cinesi e indiane. Se volesse l’Ue avrebbe i numeri per salire in cattedra e dare lezioni agli altri. Ma non osa neppure vantarsi dei suoi pochi successi, quando ci sono.

La leadership, quando c’è, fa la differenza. Il vertice di Parigi nel 2015, che accese tante speranze di una svolta vera, fu possibile grazie a Barack Obama. Fu lui a trainare Cina e India verso una logica di tipo nuovo, cooperativa e non più rivendicativa. Obama aveva appreso la lezione da un fallimento precedente, cioè Copenaghen 2009, quando l’asse di Cindia aveva opposto una fiera resistenza. Nel 2009 era prevalsa ancora una visione terzomondista e recriminatoria: le potenze emergenti non accettavano di mettersi sullo stesso piano dell’Occidente, responsabile per due secoli di devastazioni ambientali. Obama seppe costruire un dialogo con Xi Jinping che nel frattempo aveva abbracciato la nuova sensibilità dei ceti medioalti in Cina, preoccupati per i veleni che respirano. L’America coinvolse la Cina e l’India in un’idea di leadersip condivisa. Restavano troppe ambiguità, Pechino si riserva di continuare ad aumentare le sue emissioni carboniche fino al 2030. Non c’erano negli accordi di Parigi controlli sovranazionali sul rispetto degli obiettivi; né sanzioni in caso di violazione. Era una base di partenza.

Dopo Obama l’Europa avrebbe potuto subentrare. Ha una stazza economica superiore agli altri due big, America e Cina. Ha un modello di consumi meno energivoro di quello americano. Essendo dipendente da risorse energetiche esterne, è un interlocutore-chiave per i paesi fornitori.

Il saldo netto del summit di Katowice – simbolicamente ospitato in una regione carbonifera – è che il pianeta continuerà la sua marcia verso una traiettoria di riscaldamento di +3,5 gradi per la fine del secolo, contro quel limite di +1,5 gradi considerato tassativo per limitare i danni. Il rapporto allarmante della comunità scientifica (Ipcc) consegnato al vertice, «non ha ricevuto nessuna risposta», secondo la direttrice di Greenpeace International, Jennifer Morgan. Certo è scattato il sabotaggio di un’alleanza fossile che ormai si allarga fino ad abbracciare Usa Russia Arabia Brasile Kuwait e Australia. Però dagli europei non è venuto quel contrappeso che ci si poteva aspettare. È ritornata l’idea che la protezione dell’ambiente penalizza la crescita e impoverisce i più poveri. Quest’idea si è imposta perché troppo spesso gli slogan sulla Green Economy non hanno incluso soluzioni concrete e immediate per le vittime dell’abbandono delle energie fossili. L’aumento delle diseguaglianze sociali ha fatto il resto.

Dalla sua elezione Trump ha moltiplicato gli interventi a favore di un ritorno indietro, verso uno sviluppo in-sostenibile. La sua deregulation ambientale ha già smantellato gran parte delle riforme di Obama: ha ridimensionato i nuovi limiti federali sulle emissioni carboniche di auto, camion, centrali elettriche; ha autorizzato l’oleodotto XL Keystone; ha liberalizzato l’estrazione di energie fossili dai terreni di proprietà federale. La sua decisione di uscire dagli accordi di Parigi è solo simbolica (in realtà non può accadere prima del 2020, anno della prossima elezione presidenziale), tutto il resto invece sono fatti. Il boom dell’estrazione di shale gas ha contribuito alla crescita economica americana nonché ad una svolta geostrategica di portata mondiale: per la prima volta da 75 anni gli Stati Uniti tornano ad essere esportatori di energia, non importatori.

Altrettanto importante però è quel che accade nell’«altra America». La California ha deciso di rimanere vincolata agli accordi di Parigi. Ha approvato una legge che impone di raggiungere il 100% di elettricità generata da fonti rinnovabili entro il 2045; l’obbligo di convertire il metano; ha messo limiti su auto e camion ancora più severi rispetto a Obama. Tutto ciò che fa la California ha conseguenze rilevanti. Non solo perché è uno Stato con 40 milioni di abitanti, un Pil superiore a Francia e Gran Bretagna, e dagli anni Settanta ha la prerogativa istituzionale di poter legiferare sull’ambiente scavalcando le norme federali. Una dozzina di altri Stati Usa (tra cui New York) hanno agganciato le proprie leggi sull’ambiente a quelle della California. Risultato: circa il 50% della popolazione degli Stati Uniti risiede «dentro gli accordi di Parigi», cioè in Stati che seguendo la California continuano ad applicarli. Gli attori economici devono guardare al medio-lungo termine, e questo include anche gli scenari di una possibile alternanza alla Casa Bianca nel 2020.