Se essere donna è una colpa

Afghanistan, i famigliari ricordano Malala Maiwand, giornalista e attivista uccisa a 26 anni da uomini armati. Intanto i talebani avanzano e le forze internazionali lasciano il Paese: sono in moltissime a rischiare la vita e le libertà
/ 16.08.2021
di Francesca Mannocchi

«Non era solo una giornalista, Malala era una scrittrice, un’oratrice, sapeva parlare alla gente e trovava le parole giuste per descrivere la loro pena, la loro vulnerabilità. Malala era un tesoro, una gemma della società afgana che ora non c’è più». Gul Mullah ha 51 anni, il viso segnato dalle perdite prima e dalla paura poi, apre la porta della sua modesta casa di Jalalabad – città dell’Afghanistan orientale – accogliente e premuroso. «Siete venuti da lontano a raccontare la storia di mia figlia, aiutate il mondo a non dimenticarla».

Malala Mainwand era una giornalista di Enikass, la più grande emittente di radio e tv della provincia di Nangarhar, a poche decine di chilometri dal Pakistan. Aveva 26 anni quando, lo scorso dicembre, è stata uccisa insieme al suo autista in un attacco di uomini armati nel vicolo di fronte casa, mentre andava a lavorare. La sua colpa: essere una donna giornalista, una donna di fronte a una telecamera, un’attivista per i diritti civili e per l’emancipazione delle giovani donne come lei. Non le è stato perdonato, così come non le è stato concesso di continuare a essere la voce degli ultimi in Afghanistan. «Era quello per lei il senso della professione che aveva scelto. Dare voce a chi non ne ha», continua Mullah, mentre elenca gli studi di sua figlia, la sua collaborazione come consulente per i ministeri a Kabul, i suoi workshop a Kandahar per dire alle altre donne: possiamo rafforzare la società afgana».

Dopo il suo brutale omicidio il Governo ha manifestato sdegno annunciando 2 arresti, ma i familiari di Malala sostengono che fosse solo un’azione dimostrativa per mettere a tacere le altre attiviste. Il segretario del consiglio provinciale di Nangarhar ha detto: «Malala è morta con la sola colpa di lavorare per lo sviluppo e la prosperità delle donne» e Sediqullah Tawhidi, membro del Comitato per la sicurezza dei giornalisti, si è detto allarmato per lo stato del giornalismo nel Paese: «Se il Governo non ha la capacità di difendere i suoi cittadini significa accettare la fine della libertà di stampa. Non è mai stato più importante per il popolo afgano sentirsi in grado di esprimersi liberamente e fornire le proprie opinioni sui colloqui di pace, nonché impegnarsi nel processo, per raggiungere una pace inclusiva».

Diritti delle donne e libertà d’opinione sono solo due dei grandi temi aperti in Afghanistan a seguito dell’offensiva inarrestabile lanciata dai talebani lo scorso maggio, dopo l’annuncio del definitivo ritiro delle truppe statunitensi dal Paese che dovrebbe terminare entro fine agosto. La paura per tutti è tornare agli anni Novanta, quando la leadership religiosa talebana che ha controllato il Paese per 5 anni, fino al 2001, ha bandito le donne dalla scuola e dal lavoro e ha imposto loro di indossare il burqa. Negli ultimi 20 anni l’Afghanistan ha compiuto grandi passi avanti nel campo dei diritti e dell’emancipazione delle donne, ma tutto ora sembra fragile, minato da una guerra infinita che attraversa il Paese da 40 anni e che vede, in queste settimane estive, una nuova violentissima ondata di combattimenti.

«Tante, troppe persone sono contro la libertà delle donne che si lega alla libertà d’espressione. E vogliono tornare indietro, agli anni bui. È un tradimento per le donne afgane, il ritiro delle forze internazionali, in questi tempi e senza condizioni, è un tradimento per chi ha creduto in un Paese diverso», dice Fatima Zaara Hilal, 23 anni, una delle sorella di Malala, mentre sfoglia le sue fotografie. Due la ritraggono mentre presentava un programma nello studio di Enikass tv. Il giorno dell’omicidio ha sentito degli spari, è corsa in strada con suo fratello, gli assassini di Malala hanno sparato nella loro direzione, mancandoli, e sono scappati, ma prima di fuggire hanno alzato il burqa per verificare che il corpo fosse davvero quello di Malala, si sono scambiati un cenno di sì con la testa, le hanno portato via lo zaino con il computer e i documenti di lavoro e sono andati via.

«L’hanno punita perché era la voce degli ultimi in una società in cui l’unico destino ammesso per le donne è la casa», osserva Fatima Zaara Hilal. «Malala ha aperto la porta di casa e ha provato a camminare libera per il mondo. Se i talebani tornassero al potere sarebbe solo una ripetizione del passato. Anzi, peggio perché noi siamo cresciute sapendo cos’è la libertà. I Paesi stranieri hanno giustificato la loro presenza in Afghanistan spendendo milioni di dollari per difendere valori e diritti umani, ora devono aiutarci a mantenerli».
Fatima e Malala erano bambine durante il regime dei talebani, ma Fatima ricorda i racconti di sua madre. Le donne erano obbligate a indossare l’hijab o il velo in pubblico e non potevano uscire di casa senza essere accompagnate da un membro della famiglia maschio e non godevano quasi di diritti sociali. Le ragazze non potevano frequentare la scuola. Molto è cambiato da allora, 3 milioni e mezzo di ragazze frequentano le scuole, le donne rappresentano più del 20% dei membri del Parlamento e un terzo degli impiegati nelle istituzioni del servizio civile. Ci sono ministre e ambasciatrici. Ma secondo i funzionari locali e gli esponenti della società civile i talebani avrebbero già limitato i diritti e la libertà di donne e ragazze nelle aree cadute sotto il loro controllo nelle ultime settimane: avrebbero di nuovo vietato alle donne l’accesso al lavoro, alle scuole e reso obbligatoria per loro la presenza di un tutore maschio ogni volta che si recano all’esterno.

L’uccisione di Malala si inserisce in una campagna di omicidi volta a mettere a tacere giornalisti e attivisti della società civile in un momento cruciale della travagliata storia dell’Afghanistan. Dopo il suo omicidio altre tre donne, anch’esse giornaliste, sono state brutalmente ammazzate. Omicidi che hanno portato alcune emittenti della provincia di Nangarhar alla dolorosa scelta di non assumere più donne, per tutelare la loro incolumità.
Dopo essere cresciuta nell’Afghanistan post-talebano, Malala Maiwand si è sempre fortemente opposta al ritorno del regime del gruppo terroristico e ha espresso i suoi timori sulla vita sotto un futuro Governo a seguito di un accordo di pace tra i talebani e le autorità afgane. Prima di morire, aveva parlato pubblicamente della sfida di essere donna e attivista, sottolineando di voler proseguire il lavoro di sua madre, anch’essa uccisa da un commando armato 5 anni fa: «Non c’è vita senza pace», aveva detto in un’intervista a Radio free press. «Il diritto all’istruzione, all’alloggio, all’assistenza sanitaria, al lavoro e alla libertà di parola può essere protetto solo quando c’è pace nella società e nel Paese». Critica sugli accordi di Doha stretti tra gli Usa e la delegazione talebana in Qatar, disse: «Dopo un accordo di pace con i talebani, mi sarà ancora permesso di venire al microfono e fare domande come sto facendo oggi?».

Secondo il Committee to protect journalists, un osservatore globale dei media, dal 1994 in Afghanistan sono stati uccisi 51 giornalisti. Le autorità hanno indagato e sanzionato solo una manciata di questi crimini. I talebani negano di aver minacciato o fatto pressioni sui giornalisti e accusano il Governo afgano di usare i media contro di loro. Ma a maggio Zabihullah Mujahid, un presunto portavoce dei talebani, ha avvertito quei giornalisti afgani che ha accusato di dare una copertura unilaterale favorendo il Governo afgano a fermarsi o «affrontare le conseguenze».

«L’ideologia dei talebani è chiara a tutti, sono gli stessi che erano al potere due decenni fa quando privavano le donne delle libertà fondamentali», dice il padre di Malala nella casa di Jalalabad. «Ma non le ho mai chiesto di smettere, nemmeno nei giorni in cui ero più in pena per la sua sorte. L’ho sempre incoraggiata. Quando ha saputo di essere in una lista di potenziali obiettivi per i gruppi locali legati allo Stato islamico mi ha detto: se mi fermo al primo avvertimento il mio lavoro non ha senso». Malala non si è fermata. È stata fermata dal fuoco armato della brutalità. Oggi, come lei, rischiano la vita e le libertà milioni di donne afgane.