Le crisi di Governo italiane di norma non destano speciale emozione all’estero. Spesso sono relegate in trafiletti anche perché spiegarle resta difficile a chi non sia interno al circuito del politichese italico. Stavolta no. I turbamenti del dimissionario Governo Conte, il rischio (improbabile) di elezioni anticipate, le incognite sulla prossima maggioranza e sulla sua (in)stabilità sono seguiti con attenzione dai media e soprattutto dai mercati. Consapevoli che quanto attiene oggi all’Italia riguarda l’Europa e il mondo. Per la banale ragione che il fallimento della terza economia continentale, con eventuale bancarotta più o meno mascherata, riguarda tutti.
L’Italia occupa oggi una delle due posizioni che rendono un Paese importante. La prima deriva dalla propria potenza e dalla capacità di irradiarla. La seconda, persino più rilevante, appartiene a chi ha le dimensioni sufficienti perché la sua intrinseca fragilità metta in crisi il sistema cui appartiene. È il caso dell’Italia nell’Eurozona. E per derivazione, dello spazio internazionale – più o meno globale – che sarebbe investito comunque dalla crisi dell’euro. Sono molti anni che la Repubblica italiana occupa questa posizione di privilegio. Non sapendo bene che farci o forse confidando nel proverbiale Stellone (o Stella d’Italia che rappresenta metaforicamente il luminoso destino della Repubblica), alibi per la reiterazione di comportamenti tendenzialmente suicidi.
Per questi motivi Germania e Francia – gli Stati che danno il tono all’Eurozona – hanno messo l’Italia sotto protettorato informale. Non c’è la trojka, ma è quasi come se ci fosse. Oggi la sovranità fiscale e monetaria sullo Stato italiano è esercitata indirettamente da tre soggetti principali: la Banca centrale europea, che integra nelle equazioni della sua politica monetaria la necessità di salvare l’Italia, fin quando possibile; le agenzie di rating, americane non solo per sede, che esercitano una sorveglianza piuttosto benevola sui conti pubblici della Penisola, consapevoli che è interesse degli Stati Uniti non dover affrontare, specie in questa fase assai critica sul fronte interno, una crisi del sistema euro innescata dalla bancarotta italiana. Infine, ma non ultimo, il Governo tedesco in quanto nervatura centrale dell’insieme comunitario.
I segnali che provengono cautamente dalla Bce ma soprattutto dalle agenzie di rating, specie da Fitch, danno il senso del crescente allarme, accentuato dall’evidente precarietà dell’assetto di governo a Roma. Decisivo però è e sarà l’atteggiamento di Berlino. La Germania, e personalmente la cancelliera Angela Merkel, vuole evitare a (quasi) tutti i costi il fallimento dell’Italia. Per ragioni geopolitiche e di sicurezza anzitutto: la prospettiva di un failed State delle dimensioni e della caratura dell’Italia alla frontiera con Caoslandia (lo spazio delle guerre e del caos che si apre a sud del Canale di Sicilia) apre scenari imponderabili per l’insieme del Continente e non solo. Si aggiunga che il Nord Italia è pienamente inserito nella catena del valore industriale tedesco, al punto da determinare un’interdipendenza tra Italia a nord della Linea gotica e Germania, anzitutto Baviera. Sicché se finisse a gambe all’aria il Lombardo-Veneto ne risentirebbe, e molto, anche l’economia tedesca.
Soprattutto la Germania ha ancora bisogno del marchio Europa per affermare i propri interessi nazionali. Se cadesse questa foglia di fico – e l’Italia può farla cadere, senza volerlo affatto – il prezzo d’immagine e di efficienza per la Bundesrepublik sarebbe intollerabile. Tale da rimetterne in questione i fondamenti geopolitici su cui ha costruito la rinascita dopo la catastrofe bellica.
Fino a che punto può spingersi Berlino nel soccorso all’Italia? Fino a quando dovesse constatare che il Paese, per salvare il quale ha battagliato con i suoi satelliti nordici e mitteleuropei, s’è dimostrato incapace di gestire il cosiddetto Recovery Fund. Trattato dai politici italiani come fosse una normale legge di bilancio nazionale, solo straordinariamente più ricca. Con relativo assalto alla cassa da parte di lobby, corporazioni, cricche le più varie, neanche fosse un pozzo senza fondo. Di progetti credibili, come richiesto dalle autorità comunitarie (leggi Germania), molto pochi. Quasi che la tecnocrazia italiana non sapesse produrne.
Le prossime settimane ci diranno se in extremis Roma raddrizzerà la rotta. Altrimenti il rischio che lo Stellone, troppo sollecitato, a un certo punto si spenga diventerebbe concreto.
Se Berlino scaricasse Roma?
La Germania vuole evitare il fallimento dell’Italia ma la crisi politica in atto e l'incapacità di gestire il Recovery Found potrebbero spingerla a cambiare idea
/ 01.02.2021
di Lucio Caracciolo
di Lucio Caracciolo