Scisma nel mondo ortodosso

Chiesa – Il patriarcato di Mosca ha ufficialmente interrotto i legami con il patriarcato di Costantinopoli dopo che Bartolomeo ha riconosciuto l’autonomia della Chiesa ortodossa ucraina da quella russa
/ 19.11.2018
di Giorgio Bernardelli

I loro vescovi e sacerdoti non partecipano più insieme a liturgie e appuntamenti pubblici. E quando a Mosca si citano i patriarchi delle Chiese sorelle, nell’elenco il nome di Bartolomeo di Costantinopoli non compare più. Da qualche settimana i cristiani ortodossi – 300 milioni di fedeli nel mondo – stanno facendo i conti con l’esplosione di una crisi che da tempo covava sotto la cenere. Scisma è una parola che eravamo abituati a leggere solo nei libri di storia, ma è tornata improvvisamente di attualità dopo che il 18 ottobre il Sinodo del patriarcato di Mosca – riunito a Minsk – ha deciso formalmente di «rompere la comunione eucaristica» con quello di Costantinopoli. Di fatto si tratta di una rottura piena tra la storica sede del Phanar a Istanbul – dove nel 1054 si consumò la rottura con Roma – e la Chiesa russa, di gran lunga oggi la più forte per numeri e per mezzi all’interno dell’universo ortodosso.

Cuore del contendere è lo statuto dell’Ucraina, questione che si intreccia a filo doppio con il conflitto politico e militare in corso da ormai più di quattro anni nelle regioni orientali del Paese. Mosca rivendica la facoltà di nominare il metropolita di Kiev – e quindi di guidare la Chiesa ortodossa ucraina. Lo fa dal 1686 quando una lettera di Costantinopoli conferì al patriarca russo di allora questa responsabilità, di fatto sancendo l’ingresso dell’ortodossia ucraina nell’orbita di Mosca. Nel contesto di oggi, però, con la spaccatura nel Paese tra filo-occidentali e filo-russi, anche le questioni ecclesiali diventano una bandiera politica. E dunque l’attuale presidente ucraino Petro Poroshenko – eletto nel 2014 dopo i moti di piazza che hanno portato alla deposizione del suo predecessore filo-russo Viktor Yanukovych, ostile all’avvicinamento all’Unione europea e alla Nato – ha scelto di cavalcare il tema dell’autocefalia, cioè dell’indipendenza da Mosca per la Chiesa di Kiev, appellandosi appunto a Costantinopoli.

Per capire a fondo la questione occorre tener presente la natura dei rapporti esistenti all’interno del mondo ortodosso: nelle Chiese d’Oriente vige il criterio della sinodalità, cioè spetta all’assemblea dei vescovi di ciascun patriarcato prendere le decisioni più importanti. E il ruolo del patriarca di Costantinopoli non è paragonabile a quello che ha il Vaticano per la Chiesa cattolica: si è soliti dire che è «un primo tra pari», nel senso che ogni Chiesa nazionale mantiene la sua indipendenza. Ma quanti e quali sono i patriarcati? L’attuale geografia è frutto di una lunga evoluzione storica che ha definito le cosiddette «giurisdizioni canoniche», suddivise oggi in quattordici diversi patriarcati.

Stando a queste regole Kiev dovrebbe sottostare a Mosca; ma le tensioni sono facilmente intuibili in un contesto che negli ultimi anni ha visto l’annessione unilaterale alla Russia della Crimea e l’esplosione del conflitto nella regione del Donbass. Anche alla luce di questo a Istanbul il patriarcato di Costantinopoli da tempo ripeteva che la facoltà concessa a Mosca di nominare il metropolita di Kiev andava intesa come una risposta a una situazione storica contingente di oltre tre secoli fa e non come una decisione definitiva. Ma questa lettura è avversata ovviamente dalla Chiesa ortodossa russa.

Alla fine di agosto il patriarca di Mosca Kirill si è recato personalmente al Phanar con l’intento di risolvere la questione con Bartolomeo; ma le posizioni dei due schieramenti sono rimaste immutate. E il 15 ottobre è arrivata la decisione con cui il Sinodo di Costantinopoli ha avviato ufficialmente il percorso che porterà al riconoscimento dell’autocefalia dell’Ucraina, che dovrebbe diventare così il quindicesimo patriarcato ortodosso. Scelta che – come era prevedibile – la Chiesa ortodossa russa ha rimandato al mittente, dichiarando – appunto – la rottura della comunione eucaristica. Contemporaneamente tra gli ortodossi ucraini è iniziata la conta tra quanti scelgono di stare dalla parte del futuro patriarcato di Kiev e quanti invece restano dalla parte di Mosca.

Va aggiunto che se la politica ucraina ha avuto un ruolo evidente in tutta questa vicenda, non vanno comunque ignorate altre dinamiche che si innestano in questa rottura. Perché lo scontro è evidentemente tra una realtà come Costantinopoli – forte della sua storia, ma con una comunità da ormai più di un secolo ridotta ai minimi termini in Turchia – e la cosiddetta «Terza Roma», cioè Mosca, che nell’era post-sovietica ha visto una rinascita impressionante dell’ortodossia. I numeri sono notevoli: nei trent’anni trascorsi dalla fine dell’era sovietica in Russia sono state costruite circa 30 mila chiese, «tre ogni giorno» precisava recentemente il metropolita Hilarion, il «ministro degli Esteri» degli ortodossi russi. E se prima del 1989 il patriarcato poteva contare su appena 3 tra seminari e accademie di teologia adesso sono più di 50. Un dinamismo che non si ferma entro i confini della Russia: il patriarcato di Mosca, ad esempio, ha ricominciato a guardare anche all’Asia, con propri missionari che hanno fondato negli ultimi anni chiese con le caratteristiche cupole in posti come la Thailandia, Hong Kong, l’Indonesia, persino la Mongolia. Parallelamente a quanto sta facendo Putin a livello geopolitico, dunque, anche nella sfera religiosa Mosca si è riaffacciata sul palcoscenico globale. E l’incontro tra il patriarca Kirill e papa Francesco – il primo in assoluto tra un Pontefice e un leader ortodosso di Mosca, avvenuto a Cuba nel 2016 – va letto anche in questa prospettiva. Si capisce quindi la preoccupazione di Costantinopoli, che teme di vedere sempre più l’ortodossia schiacciata sull’onda lunga del ritorno della Russia.

Due anni fa da Istanbul il patriarca Bartolomeo aveva provato a riprendere l’iniziativa convocando a Creta un Concilio ortodosso, cioè un incontro di tutti e quattordici i patriarcati, un evento che ambiva ad essere qualcosa di simile a ciò che per la Chiesa cattolica fu il Concilio Vaticano II negli anni Sessanta del secolo scorso: un confronto a 360 gradi sulle sfide per l’ortodossia nel mondo di oggi. Ma quell’iniziativa è sostanzialmente fallita proprio perché – dopo aver inizialmente aderito alla preparazione – alla fine Mosca, con le Chiese ortodosse di Antiochia, della Georgia e della Bulgaria, ha scelto di non partecipare, depotenziando così fortemente la portata dell’evento. In fondo la crisi che oggi la questione dell’Ucraina ha portato alla ribalta non è altro che la continuazione di questa spaccatura già venutasi a creare nel 2016. Ed è uno scenario a cui anche il Vaticano guarda con molta preoccupazione: da una parte Roma vorrebbe mediare tra le due posizioni, forte anche degli ottimi rapporti costruiti con il patriarcato di Costantinopoli che durano ormai da cinquant’anni. Si muove però con estrema cautela, per non bruciare il canale nuovo appena riaperto con Mosca.

Dentro a questo scenario complesso c’è in particolare una regione del modo dove i contraccolpi di questa spaccatura rischiano di farsi pesanti: il Medio Oriente. Da Gerusalemme fino ad Aleppo, infatti, gli ortodossi sono la più corposa tra le minoranze cristiane. E basta guardare all’architettura delle chiese lasciate in eredità dalla storia travagliata di questo angolo del mondo per capire quanto l’impronta bizantina qui sia stata fondamentale. Ma in questi ultimi anni l’elemento religioso è stato un capitolo fondamentale del ritorno della Russia in Medio Oriente. L’intervento militare in Siria a sostegno di Bashar al Assad è stato presentato da Putin stesso come una difesa delle comunità cristiane locali minacciate. E anche a Gerusalemme ogni mese arrivano frotte di pellegrini russi che affollano la basilica del Santo Sepolcro. Non è un caso, dunque, che il patriarcato di Antiochia – quello da cui dipendono gli ortodossi della Siria – sia stato tra i primi a schierarsi con Mosca nella disputa con Costantinopoli.

Rischiano, quindi, di entrare anche le divisioni tra cristiani nella polveriera del Medio Oriente. Proprio là dove la minaccia jihadista non ha affatto finito di mettere le chiese nel mirino.