Scintille tra le sponde dell’Atlantico

Gli europei scoprono con ritardo e disappunto che è drasticamente cambiato il posizionamento strategico degli Stati uniti
/ 27.09.2021
di Federico Rampini

La «dottrina Biden» è una «dottrina Trump» aggiornata? La politica estera degli Stati uniti viene sottoposta a una serie di test: dopo il ritiro dall’Afghanistan, dopo l’accordo sui sottomarini nucleari con l’Australia che ha fatto inferocire la Francia, è la volta del pugno duro contro i migranti haitiani che tentano di attraversare il confine meridionale. In mezzo Joe Biden, che nel suo discorso alle Nazioni unite ha offerto una versione aggiornata della sua visione internazionale, la quale in parte risponde agli interrogativi. L’emergenza migranti al confine tra Usa e Messico è stata descritta come «senza precedenti». Il governatore del Texas ha mosso dure critiche al presidente dicendo che la gestisce «male quanto l’evacuazione delle truppe americane dall’Afghanistan». Hanno fatto il giro del mondo le immagini della polizia di frontiera americana che frusta i profughi. Qualcuno sostiene che se avessimo assistito alle stesse scene con Trump alla Casa bianca la condanna sui media sarebbe stata più forte.

Da parte sua il vecchio Continente ha incassato malissimo due decisioni del presidente americano: l’evacuazione precipitosa dall’Afghanistan; poi la nascita di nuove geometrie strategiche e nuovi club nell’Indo-Pacifico. La ritirata da Kabul non sarebbe stata sufficientemente concordata con i partner della Nato, sempre secondo le critiche europee. Poi c’è stato lo «strappo» dei sottomarini, quando Washington ha annunciato la fornitura di sommergibili a propulsione nucleare all’Australia, battezzando un nuovo dispositivo difensivo – Aukus – che unisce le marine militari americana, inglese e australiana.

Le proteste più vibrate sono venute dalla Francia mescolando questioni strategiche e interessi affaristici: Parigi si è vista soffiare il mercato australiano sul quale sperava di vendere per 56 miliardi dei sottomarini «made in France». Il premier australiano Scott Morrison ha risposto per le rime: i mezzi francesi non sono competitivi, la propulsione nucleare offre vantaggi strategici in termini di autonomia su lunghissime distanze e capacità di sfuggire alla rilevazione del nemico. Sullo sfondo c’è l’ombra della Cina e la minaccia di una sua invasione di Taiwan. Emmanuel Macron oltre al business perduto si sente escluso da un teatro sempre più strategico, mentre proclama che anche la Francia è una «potenza dell’Indo-Pacifico» (grazie ad alcuni territori d’oltremare). L’incidente ha riprodotto le incomprensioni fra le due sponde dell’Atlantico che si erano verificate sull’Afghanistan. Gli europei sembrano scoprire con ritardo che è cambiato in modo drastico il posizionamento strategico dell’America, le sue priorità, gli scenari su cui vuole concentrare le risorse.

Ancora a metà giugno gli europei applaudivano Biden perché in occasione della sua tournée europea diceva «America is back», l’America è tornata. Non si chiedevano: tornata dove? L’asse preferenziale con la vecchia Europa è ormai un anacronismo perché il mondo è cambiato. Il «pivot to Asia», la rotazione strategica verso l’Asia era stata annunciata già da Barack Obama, anche se poi il Pentagono e l’establishment globalista lo avevano tenuto inchiodato a guerre del passato come l’Afghanistan. La «dottrina Biden» è il frutto di una nuova generazione di strateghi, guidati da Jake Sullivan, a capo del National security council. Non è una riedizione dell’«America first» di Donald Trump ma ne ha estratto alcune lezioni. L’America si era distratta mentre la Cina accelerava la sua rincorsa in settori tecnologici cruciali, e potenziava i suoi armamenti fino a raggiungere la parità su alcuni teatri asiatici o addirittura la superiorità in forze navali.

La Cina, ancora e sempre, è il filo rosso che dà un senso alle parole di Biden al Palazzo di vetro. Il presidente degli Stati uniti è arrivato all’appuntamento dell’assemblea generale Onu il 21 settembre assediato dai dubbi sulla leadership globale del suo Paese. «Non vogliamo una guerra fredda, ma una vigorosa competizione tra potenze», è la risposta che riassume la nuova strategia verso Pechino. No, non sono Donald Trump, in risposta alle accuse, questo è un altro messaggio implicito di Biden quando elenca le emergenze da affrontare. Cambiamento climatico, pandemie. Lui prende sul serio queste minacce che incombono sull’umanità intera e su questi terreni crede nella cooperazione tra Nazioni. Ha varato un nuovo piano di acquisti di vaccini per centinaia di milioni di dosi che donerà ai Paesi poveri. Su almeno un altro terreno però la continuità con Trump è reale: la visione di un impero o ex-impero americano che si ripiega, si rattrappisce, rinuncia a difendere tutte le periferie, richiama a casa legioni disperse, concentra l’attenzione e le risorse sull’unica sfida vitale. «Le guerre non risolvono i problemi», così Biden liquida l’Afghanistan, a un mese dall’evacuazione di Kabul che ha guastato i rapporti con tanti alleati.

Difendere la democrazia e i diritti resta per lui una missione dell’America (a differenza di Trump), però il linguaggio delle armi vuole sostituirlo con una relentless diplomacy. Invece delle guerre infinite, e delle missioni di Nation-building a tempo indeterminato, propone questa diplomazia persistente, implacabile, inarrestabile. Chiede alle liberaldemocrazie del mondo intero unità contro le autocrazie e i loro assalti tecnologici (hacker, ransomware, le cyber-guerre endemiche e quotidiane). Biden ai margini dell’assemblea Onu ha convocato il primo vertice dal vivo del Quad, il quadrilatero delle democrazie dell’Indo-Pacifico in funzione di contenimento dell’espansionismo cinese. India, Giappone e Australia sono gli altri tre angoli del quadrilatero attorno al quale Biden vuole costruire una coalizione più vasta, che attiri alleati tradizionali come Corea del Sud, Indonesia, Filippine, Singapore. Il tasso di liberaldemocrazia è assai variabile in quell’area, ma è evidente l’interesse comune a controllare e limitare le mire egemoniche di Xi Jinping.

La dottrina Biden è ispirata da realismo e modestia: quest’America sa che da sola non può fare da contrappeso a una Nazione con un miliardo e quattrocento milioni di abitanti, un Pil che presto raggiungerà quello degli Usa, forze armate che almeno in Asia sono già superiori. Solo le alleanze possono ristabilire qualche equilibrio nei rapporti di forza. Perciò l’importanza degli alleati verrà soppesata in base alla loro efficacia, al loro impatto nella grande sfida con la Cina. La vecchia Europa dovrà superare le sue prove. L’Amministrazione Biden non ha abolito uno solo dei dazi di Trump contro il «made in China», se possibile vuole forme ancora più stringenti di embargo su alcune tecnologie strategiche. Il vecchio Continente, visto da Washington, appare pericolosamente tentato da una strategia di «terza forza», una equidistanza almeno economico-finanziaria tra la sfera russo-cinese e l’America. In quanto all’emergenza migranti, Biden riesuma una tradizione della sinistra americana, che da Franklin Roosevelt a John Kennedy seppe costruire un modello socialdemocratico tenendo le frontiere semi-chiuse.