Scenario sempre più buio

Usa-Cina – Fra i due Paesi dichiarata ufficialmente la guerra delle monete che va ad affiancarsi a quella dei dazi. Mentre la Cina si prende una rivincita (temporanea) esportando i suoi prodotti in Europa e nel Sud-est asiatico
/ 12.08.2019
di Federico Rampini

A sorpresa, le esportazioni cinesi sono in aumento. Non quelle verso gli Stati Uniti, penalizzate dai dazi. Ma per il made in China non esiste solo il mercato americano. È in Europa e nel Sud-est asiatico – i due maggiori sbocchi per l’industria cinese – che Pechino si è procurato una rivincita, almeno temporanea. Le vendite verso questi due mercati sono cresciute rispettivamente del 15,6% (Sud-est asiatico) e del 6,5% (Unione europea) nel luglio 2019 rispetto a 12 mesi prima. Questo dato sembra confortare la scelta di Xi Jinping di irrigidire la sua posizione negoziale con Donald Trump, rimangiandosi alcune concessioni. Molti osservatori si sono convinti che Xi ha deciso di aspettare l’elezione del novembre 2020, in sostanza puntando sulla sconfitta di Trump. (Oppure, in subordine, sullo scenario in cui una volta rieletto Trump non avrebbe più bisogno di ottenere troppo dalla Cina).

La guerra dei dazi intanto si arricchisce di un nuovo capitolo. Tra Washington e Pechino sono cominciate le prove generali di una guerra parallela, quella delle valute. Tutto è cominciato lunedì scorso con la mossa della banca centrale cinese che ha fatto scivolare per la prima volta la parità dollaro-renminbi sotto la quota simbolica 7 a 1, che non era stata varcata da anni. L’indebolimento della moneta cinese (il renminbi è detto anche yuan) è una mossa con cui Xi Jinping può tentare di compensare l’effetto dei nuovi dazi Usa annunciati per il primo settembre: i dazi americani automaticamente rincarano il made in China, la svalutazione competitiva ha l’effetto opposto.

Nella tarda serata di lunedì è arrivata la reazione di Washington: per la prima volta dal 1994 e quindi per la prima volta da quando la Cina si è integrata nell’economia globale, il Tesoro Usa la denuncia ufficialmente come una nazione che «manipola la valuta», aprendo la strada in teoria a nuove misure sanzionatorie. È la dichiarazione formale di una guerra delle monete che può prolungare e amplificare quella dei dazi. Non una deflagrazione immediata, però. Mercoledì la banca centrale cinese ha evitato di prolungare la discesa del renminbi, mostrando cautela, un gesto che ha momentaneamente placato i mercati. In quanto al Tesoro Usa, per ora l’aver bollato la Cina come una manipolatrice del tasso di cambio non ha conseguenze concrete. È un tassello aggiuntivo in un armamentario giuridico che legittima le future ritorsioni americane. Peraltro già annunciate, visto che in assenza di novità sul fronte commerciale dall’inizio di settembre altri 300 miliardi di merci made in China saranno assoggettate ai dazi aggiuntivi quando varcano la frontiera Usa. 

Con quella nuova raffica di dazi, praticamente la totalità delle importazioni americane dalla Cina sarà soggetta a tassazione protettiva-punitiva. Va ricordato l’argomento di Donald Trump: l’export americano verso la Cina è sempre stato colpito da dazi superiori, vi è dunque una mancanza di reciprocità. Lo squilibrio nell’interscambio tra i due Paesi continua ad essere enorme: 167 miliardi di dollari è stato il deficit bilaterale americano nella prima metà di quest’anno. È però in calo, in questo senso i dazi stanno funzionando: le importazioni americane dalla Cina si sono ridotte del 12%. Xi Jinping ha meno spazio di manovra del suo omologo: poiché Pechino importa un quinto di quel che esporta in America, la sua capacità di replicare colpo su colpo con i dazi si sta già esaurendo. Un’alternativa è compensare i dazi Usa rendendo meno care le merci cinesi attraverso la svalutazione.

La guerra delle monete finora era stata evitata, perché ha delle controindicazioni. La Cina è anche una grossa importatrice di materie prime, petrolio in testa, che paga in dollari. Se deprezza il renminbi, è automatico il rincaro della sua bolletta energetica. Un altro rischio è la fuga di capitali. I risparmiatori cinesi, impauriti dalla svalutazione della propria moneta, possono cercare di diversificare i propri portafogli aumentando i titoli stranieri. Esportare capitali dalla Cina non è facile come da un paese occidentale, però ci sono strade per aggirare le restrizioni valutarie e in passato sia i risparmiatori che le imprese cinesi vi hanno fatto ricorso nei momenti di paura. Questo si collega con la denuncia del Tesoro Usa sulla manipolazione valutaria. Una premessa di quella denuncia, è che il renminbi sia effettivamente manipolabile, cioè controllato dalla banca centrale e quindi dal governo di Pechino (l’autorità monetaria in Cina non è indipendente dall’esecutivo).

Nella realtà la valuta cinese naviga in un sistema ibrido. In parte risponde alle forze di mercato, domanda e offerta, come il dollaro o l’euro, lo yen giapponese o la sterlina britannica. In parte è la People’s Bank of China (Pboc, nome ufficiale delle banca centrale) a dirigerne le oscillazioni tenendolo agganciato ad un paniere di valute. Questo modello ibrido si traduce anche nell’esistenza di due mercati valutari, uno a Hong Kong ed uno a Shanghai, con cambi diversi e anche tassi d’interesse diversi. La transizione della Cina verso una libera fluttuazione del cambio sembrava avviata alcuni anni fa. Poi alcuni scossoni di Borsa – con relative fughe di capitali, in particolare nel 2015 – convinsero Xi a ripristinare dei controlli sulle uscite di capitali. L’arma valutaria è a doppio taglio, ma in questa escalation di ostilità tra le due superpotenze ciascuna sembra disposta a infliggersi qualche danno pur di piegare l’avversario.

Gli appassionati di teoria del complotto potranno trovare interessante la coincidenza con la ripresa di attività missilistiche che proprio in questi giorni tornano a intensificarsi nella Corea del Nord. Se Xi è in grado di manovrare Kim Jong-un questo aumenta le sue carte negoziali. 

Su un altro dossier, quello di Hong Kong, Xi ormai minaccia apertamente un intervento repressivo cinese, senza escludere la scesa in campo dei militari. Questo però è un segnale di debolezza. Si direbbe che il presidente cinese, pur avendo concentrato nelle proprie mani un potere personale senza precedenti dai tempi di Mao Zedong – o forse proprio per questo – sia preoccupato dal rischio di «perdere la faccia». Questo offre un’altra possibile lettura del suo irrigidimento sulla sfida economica con gli Stati Uniti. Ancora qualche mese fa, la delegazione governativa cinese aveva messo sul tavolo negoziale delle concessioni significative, almeno sulla carta: per esempio una riforma delle leggi sulla proprietà intellettuale. 

La strada più semplice per Xi sembrava quella di promettere grandi cambiamenti a favore delle imprese occidentali, poi rimangiarsele nell’applicazione quotidiana. Nulla di più facile, vista la natura del sistema istituzionale cinese, in particolare la mancanza di indipendenza della magistratura. Sarebbe stato facile per Xi offrire agli americani ampie garanzie sulla protezione dei segreti industriali delle loro aziende, poi calpestarle nella pratica, continuando a praticare discriminazioni contro le multinazionali estere. Trump sarebbe stato prima illuso e poi gabbato. Questo approccio tradizionale comportava però un’apparenza di cedimento all’America. Quando Xi si è rimangiato quelle promesse, è plausibile che abbia avuto paura di incrinare la propria immagine di leader «macho», di uomo forte, nazionalista alla guida di una superpotenza in ascesa.

Lo stesso potrebbe valere per Hong Kong, dove qualsiasi concessione alle richieste di democrazia da parte della cittadinanza può essere vissuta come un pericoloso cedimento. Xi sta rispolverando perfino i toni della propaganda maoista sulla «Lunga Marcia», l’epopea della resistenza partigiana contro i nazionalisti di Chiang-Kai Shek e contro gli invasori giapponesi. Anche sul versante cinese, i toni stanno preparando una guerra fredda.