Scenari di una crisi

Algeria – Da giorni, milioni di algerini sono scesi in piazza per opporsi al quinto mandato consecutivo del presidente Abdelaziz Bouteflika. Che alla fine ha rinunciato a ricandidarsi ma resterà in carica fino alle elezioni (rinviate)
/ 18.03.2019
di Lucio Caracciolo

L’Algeria è una pentola a pressione che può esplodere da un momento all’altro. Con conseguenze colossali per tutto il Nordafrica, e non solo. Al confronto, la guerra di Libia del 2011 culminata nella liquidazione del colonnello Gheddafi, che ha disegnato un vuoto geopolitico dove un tempo esisteva il più ricco Stato africano, apparirebbe davvero poca cosa. Per il più grande paese del Continente Nero (2 milioni e 400 mila chilometri quadrati), con oltre 42 milioni di abitanti in grande maggioranza giovani (e disoccupati) e un’economia di rendita energetica di notevoli dimensioni ma in evidente crisi anche a causa del calo del prezzo del petrolio, la resa dei conti si avvicina.

Il regime post-rivoluzionario guidato dal Fronte di Liberazione Nazionale e incarnato dall’anziano e malato presidente Abdelaziz Bouteflika deve affrontare la più seria sfida alla sua egemonia dalla guerra civile degli anni Novanta del secolo scorso. A scatenare la protesta di milioni di algerini, che nelle ultime settimane hanno invaso le piazze della capitale e delle altre principali città, era stata la decisione di Bouteflika – o meglio, del potere militare che lo usa quale paravento del proprio dominio – di candidarsi per la quinta volta alla presidenza della Repubblica, nelle elezioni già previste per il 18 aprile. Un moto così potente e diffuso da costringere lo stesso Bouteflika (o chi per lui), di rientro da due settimane di cure a Ginevra, ad annunciare la sua rinuncia a candidarsi. Ma all’annuncio non ha fatto seguito la calma piatta che il regime sperava. Anzi, in alcune città le manifestazioni sono riprese. 

L’inquietudine sul futuro della grande nazione algerina resta, e coinvolge tutti i paesi vicini. Ma anche la Francia, ex metropoli coloniale, dove la diaspora è mobilitata contro il potere di Algeri. Una crisi definitiva del regime algerino avrebbe quindi riflessi immediati a Parigi, ciò che mette in allarme i servizi di intelligence francesi.

Nella lettera al suo popolo, con la quale il 10 marzo ha comunicato la rinuncia a candidarsi, Bouteflika annunciava un processo di riforme che dovrebbe sfociare in una nuova costituzione e quindi in una Seconda Repubblica. Perno di questa rivisitazione del potere sarebbe una «conferenza nazionale inclusiva, equamente rappresentativa della società algerina come delle sensibilità che la percorrono». Ciò che con qualche forzatura potrebbe essere letto anche come un’apertura di facciata ai movimenti islamisti, finiti ai margini della società o messi al bando dopo la sanguinosa guerra civile.

In conseguenza dell’annuncio presidenziale, il primo ministro Ahmed Ouyahia si è dimesso, sostituito da Noureddine Bedoui. Il capo delle Forze Armate e uomo forte del regime, Ahmed Gaid Salah, ha ritenuto di evocare «la simpatia e la solidarietà tra il popolo e il suo esercito». E i soldati sono rimasti per ora nelle caserme, mentre la gente continuava a mobilitarsi nelle piazze.

Bouteflika resta comunque in carica in tutta questa fase di «riforme», a conferma che fra i poteri forti, profondi, che investono in modo particolare esercito e servizi segreti, la lotta per la successione presidenziale non permette di produrre un candidato unico, garante di tutti. Ciò ha permesso al famoso vignettista Dilem di osservare che invece di un quinto mandato di cinque anni Bouteflika avrà un quarto mandato di dieci anni.

Un aspetto poco indagato ma centrale della crisi algerina riguarda la penetrazione della Cina nel Paese. Il regime aveva concordato e attuato negli scorsi anni un patto con Pechino in base al quale la Repubblica Popolare avrebbe costruito (quasi) gratis case e infrastrutture in Algeria, ottenendo in cambio idrocarburi e influenza politica. Una delle ramificazioni, insomma, delle cosiddette «nuove vie della seta», ovvero del progetto di controglobalizzazione in chiave anti-americana perseguito da Xi Jinping. Se il regime fosse costretto per sopravvivere a mettersi ancora più profondamente nelle mani dei cinesi, questo altererebbe gli equilibri geopolitici in Africa e nel Mediterraneo, con inevitabili riflessi per i paesi del Sud Europa, ma anche per la Francia quale ex padrino coloniale legato a doppio filo al destino del suo vecchio dipartimento.

La storia insegna che quando nei regimi autoritari si mettono in moto movimenti di massa di tali dimensioni, la possibilità che si formi una valanga inarrestabile se non con la forza – e con il sangue – sono alte. In ogni caso, il valore strategico dell’Algeria è tale da investire della sua crisi tutte le potenze regionali, ma anche Stati Uniti e Cina.