Il misterioso attacco contro due petroliere nel Golfo di Oman (13 giugno) e il conseguente rafforzamento del contingente militare Usa nella regione (più mille uomini) hanno recentemente alzato la tensione nell’area più incandescente del mondo. La domanda regina: una guerra fra Stati Uniti e Iran è possibile? La risposta: sì, ma improbabile.
L’attacco contro i tanker nelle acque bordeggianti la Penisola Arabica è stato subito attribuito dagli americani e dai loro amici – in primo luogo israeliani, sauditi e altre petromonarchie assolutiste del Golfo Arabo/Persico – alla Repubblica Islamica d’Iran. La quale ha naturalmente respinto l’accusa. Siamo in piena guerra di propaganda. È dunque legittimo, anzi necessario, dubitare di quanto ci viene venduto dalle parti in causa. Potrebbe trattarsi di una provocazione dei pasdaran iraniani, recentemente bollati come «terroristi» da Washington, o all’opposto di un tentativo dei nemici regionali dell’Iran di accentuare la pressione su Teheran, se non di spingere verso un conflitto che immaginano si risolva nella liquidazione della loro nemesi – il regime dei pasdaran e degli ayatollah. Di sicuro in entrambi i campi ci sono gruppi di potere disposti a giocare la carta bellica pur di far valere i propri interessi.
Per non farci mancar nulla, Teheran ha annunciato che a brevissimo termine violerà i termini dell’accordo sul nucleare del 2015, fortemente voluto da Obama e denunciato da Trump. L’uranio sarà arricchito a un grado superiore rispetto a quello fissato, come risposta alla violazione americana del patto sottoscritto e alle crescenti sanzioni internazionali pilotate da Washington, che stanno minando l’economia dell’Iran e quindi la sua stabilità interna. Considerando poi che l’invio dei mille soldati si aggiunge a quello di altri millecinquecento solo poche settimane fa, se ne conclude che Teheran e Washington stanno giocando all’escalation. Presumendo di poterla controllare. Ma quando si entra in una logica di guerra la guerra può a un certo punto prendere il sopravvento sulla logica.
Il timore immediato degli Stati Uniti è un attacco a basi o assetti militari propri o alleati nella regione, da parte dei pasdaran o di loro proxies. Ipotesi da considerare. Dal maggio scorso la Guida Suprema Ali Khamenei sta insistendo con i suoi apparati perché accelerino un cambio di strategia, passando all’offensiva su una scala più ampia di quella regionale. In altre parole, il regime di Teheran dev’essere pronto a colpire interessi e posizioni americane dovunque possibile, direttamente o via gruppi affiliati (Hizbullah è in cima alla lista). Ciò per rendere il nemico più insicuro e costringerlo alla difensiva.
Inoltre, il regime usa le minacce americane per compattare la popolazione intorno alla difesa della patria, non solo della Repubblica Islamica. Nelle emergenze, la carta patriottica è l’ultima risorsa dei regimi. Né gli americani fanno molto per evitare che questa «nazionalizzazione» dell’opinione pubblica persiana sia contenuta in limiti accettabili.
Ci sono altri attori nella regione che spingono per un confronto armato contro l’Iran. Non necessariamente un’invasione di terra, che si risolverebbe in una carneficina e in una guerriglia permanente, ma scontri indiretti in Medio Oriente (Iraq, Siria, Afghanistan, Yemen, Libano, Palestina…il catalogo è lungo) per fiaccare la volontà e la coesione della Repubblica Islamica. In prima linea c’è la coppia saudito-emiratina, appoggiata da Israele. È soprattutto il leader degli Emirati Arabi Uniti, Mohammed bin Zayed, mentore del più giovane e meno scaltro amico e collega saudita Mohammed bin Salman, a propugnare la necessità di farla finita con Teheran, in un modo o nell’altro.
Il principale fattore ostativo alla deriva bellica sta nell’ormai avviata campagna elettorale negli Stati Uniti per il rinnovo del presidente della Repubblica. Trump si è già concentrato sulla sua rielezione nel novembre 2020 e non ha interesse a «sporcare» il suo primo quadriennio con una guerra dalla dubbia popolarità e dall’ancora più incerto esito. Come il suo predecessore, l’attuale inquilino della Casa Bianca vuole evitare che il grosso delle forze combattenti americane s’impelaghi in una grande guerra in aree non decisive per gli interessi nazionali. Ma nessuno, nemmeno il presidente degli Stati Uniti, può avere il pieno controllo degli eventi. Una guerra per accidente è eventualità sempre meno vaga, nel momento in cui la postura dei due campi si fa costantemente più aggressiva.