Quattro elezioni generali in quattro anni. Il caso spagnolo è decisamente un unicum senza precedenti in Europa, in un Paese che non riesce ad uscire dall’impasse istituzionale creatasi nel 2015 con la fine del bipartitismo. Da allora regna l’instabilità politica, alla quale non ha saputo porre fine nemmeno Pedro Sánchez. Dopo essere stato bocciato durante l’investitura come primo ministro nel luglio scorso, il leader socialista non è riuscito a trovare un accordo in extremis né con la sinistra radicale di Podemos né con il partito di centro-destra Ciudadanos. Si tornerà quindi di nuovo alle urne il 10 novembre, ma con il peso della responsabilità per questa ennesima tornata elettorale tutto sulle spalle di Sánchez.
Dal voto di aprile era uscito vincitore il Partito socialista (Psoe), senza però i seggi sufficienti per formare un governo da solo (123 deputati su un totale di 350). Sánchez aveva quindi ricevuto l’incarico dal re Felipe VI e aveva il dovere istituzionale di provare a formare un governo. Ma, dopo aver fallito nel tentativo di creare un esecutivo di coalizione con Podemos finito tra accuse reciproche di colpevolezza, Sánchez e i suoi spin doctor hanno pensato che la migliore soluzione per il proprio partito sarebbe stata quella di un ritorno al voto. Il primo ministro facente funzioni e tutto il Psoe hanno sempre mal digerito in effetti l’idea di condividere il potere con il partito di Pablo Iglesias. La prova la si è avuta dieci giorni fa, quando dopo l’ultimo fallimento negoziale, Sánchez ha dichiarato un’intervista in tv che non avrebbe dormito la notte «se avesse ceduto ministeri a Podemos».
La strategia di Sánchez è sempre stata quella di puntare principalmente su una ripetizione delle elezioni, dato che i sondaggi danno il Psoe nuovamente come vincitore (con un 30% dei voti), rafforzando la sua posizione egemone a detrimento di Podemos e Ciudadanos (entrambi attorno al 14%). Così facendo, Sánchez si assume però un rischio importante perché la probabilità di avere una forte astensione alle urne è alta. L’astensionismo si manifesterebbe principalmente nelle file dell’elettorato di sinistra, stanco e disilluso, e poco propenso a tornare a votare. Ciò favorirebbe soprattutto i partiti di destra: il Partito popolare, in particolare, è dato in risalita fino al 20% dopo aver toccato il suo minimo storico nell’aprile scorso, mentre l’estrema destra di Vox rimarrebbe stabile attorno al 10%. D’altronde da un recente sondaggio si è appreso che il 90% degli spagnoli è stufo di questa paralisi istituzionale e non vede di buon occhio il fatto di dover tornare a votare. Sánchez quindi gioca col fuoco perché potrebbe aver buttato al vento l’occasione storica di formare il primo governo di coalizione delle sinistre e perdere il potere in favore delle tre destre (Pp, Ciudadanos e Vox). È uno scenario plausibile infatti la possibilità che il Psoe rimanga sì il primo partito di Spagna, ma che però debba passare all’opposizione. La somma dei deputati delle tre destre potrebbe avere i numeri per governare, come d’altronde è già avvenuto nelle recenti elezioni amministrative in varie regioni e grandi comuni spagnoli, come nella città di Madrid e nella sua regione metropolitana. Inoltre la volatilità del consenso dato a un leader (tanto più se poco carismatico come Sánchez) è una costante in tutte le democrazie liberali contemporanee e il futuro in politica è sempre pieno di incognite. A cominciare dall’imminente sentenza del processo contro i leader separatisti catalani, accusati di sedizione e ribellione contro lo Stato. Il verdetto è previsto per la prima metà di ottobre e avrà delle ripercussioni sia a livello politico che sociale.
Il peso politico della Catalogna ha sempre giocato storicamente un ruolo importante nella formazione o nella caduta dei governi nazionali. La questione catalana sarà ancora una volta il tema centrale della campagna elettorale e il preoccupante clima di tensione che si sta vivendo in questi giorni per le strade di Barcellona aumenterà i toni del dibattito. La Guardia Civil ha infatti arrestato settimana scorsa nove persone appartenenti ai sedicenti CDR (Comitati di Difesa della Repubblica, un’organizzazione radicale composta perlopiù da giovani attivisti indipendentisti che ha già compiuto vari atti di sabotaggio alle infrastrutture catalane) accusati di «terrorismo secessionista». Secondo la Procura generale dello Stato, queste persone stavano preparando azioni violente con esplosivi che avrebbero potuto creare danni irreparabili. Se così fosse, saremmo di fronte a un salto di livello nella strategia di lotta in una parte del movimento indipendentista. Nel frattempo la polizia catalana ha rafforzato le misure di sicurezza per bloccare sul nascere eventuali scontri nelle manifestazioni di protesta che si terranno domani in coincidenza con il secondo anniversario dell’autoproclamato referendum di indipendenza. Ci si aspetta una escalation della tensione almeno fino al giorno della sentenza, ma potrebbe continuare anche fino alle elezioni.
In ogni caso, anche se dopo i risultati elettorali del 10 novembre si dovesse finalmente riuscire a formare un governo, quest’ultimo non entrerebbe in carica prima del 2020. Una situazione che ha dell’incredibile, se si pensa che due degli ultimi quattro anni sono stati vissuti con governi in carica solo «ad interim» (prima con Rajoy come primo ministro e poi attualmente con Sánchez), che si possono occupare solo del disbrigo degli affari correnti per non avere un vuoto di potere. Si è arrivati al punto che l’ultima legge finanziaria e di bilancio risale a più di tre anni fa e verrà prorogata per il terzo anno consecutivo almeno fino al 2020. Questo ha delle conseguenze pratiche anche sulla vita delle persone perché significa paralizzare i finanziamenti alle regioni, congelare l’adeguamento delle pensioni all’andamento dell’inflazione o bloccare l’aumento dei salari per i funzionari pubblici, misure che erano state approvate per decreto legge ma non hanno potuto avere una copertura economica. A questo si aggiunge il fatto che l’economia spagnola sta subendo una decelerazione (la crescita annuale del PIL è passata dal 3% al 2,2%) e che in Spagna gli effetti della Brexit preoccupano parecchio (in Spagna risiedono 400’000 britannici e l’industria turistica spagnola dipende in buona misura anche dall’afflusso di sette milioni di clienti anglosassoni che ogni anno visitano il Paese). Un esempio lo si è vissuto settimana scorsa con il fallimento del tour operator britannico Thomas Cook (avvenuto anche per effetto della Brexit e dell’indebolimento della sterlina) che ha portato al collasso gli aeroporti delle principali isole spagnole con migliaia di turisti britannici bloccati a terra. Ciò ha creato grande preoccupazione per il futuro in un settore che rappresenta il 15% del PIL spagnolo.
Una preoccupazione che sembra però non avere Pedro Sánchez e il suo entourage, i quali ritengono che il Partito socialista continuerà ad essere il partito più votato il 10 novembre e sono convinti che il premier facente funzioni sia l’unica persona in grado di formare un governo dopo il voto. Se le certezze di Sánchez e del Psoe troveranno conferma anche nelle urne, lo potranno dire solo gli elettori.