Salvini negli Usa: così fan tutti

Visita – È andato a Washington per una sorta di incoronazione personale
/ 24.06.2019
di Federico Rampini

Il 3 gennaio 1947, un venerdì di 72 anni fa, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi stava preparando la sua visita negli Stati Uniti, disteso su una cuccetta del quadrimotore Skymaster, diretto da Roma a Washington. Altri tempi, non esistevano ancora i jet e per volare in America ci volevano due scali di rifornimento carburante. Altri tempi anche per il contesto geopolitico: il democristiano De Gasperi, nato in Trentino quando era ancora nell’impero austro-ungarico, andava ad accreditarsi come il leader più affidabile per schierare l’Italia «dalla parte giusta», nella divisione del mondo che si stava delineando agli albori della Guerra fredda.

Ne avrebbe ricavato dei frutti con un primo prestito americano, a cui sarebbero seguiti i fondi del Piano Marshall. Per quanto il mondo di oggi sia irriconoscibile, c’è una costante: la ricerca di un accreditamento negli Stati Uniti da parte dei politici italiani. Un po’ tutti sono passati di qui. Anche in tempi recenti. Silvio Berlusconi cercò una sponda presso i neoconservatori di George W. Bush. Massimo D’Alema con la partecipazione del suo governo alla guerra Nato nel Kosovo si era guadagnato l’appoggio di Bill Clinton.

Il vicepremier e ministro dell’Interno Matteo Salvini è l’ultimo di una lunga lista, in questa moderna forma di vassallaggio. È andato anche lui a Washington per una sorta d’incoronazione personale: come l’unico vero trumpiano nel governo italiano, la sponda affidabile di questa Amministrazione Usa. Negli incontri col segretario di Stato Mike Pompeo e col vicepresidente Mike Pence ha preso nettamente le distanze dal presidente del Consiglio Conte e dal Movimento 5 Stelle su atti qualificanti della politica estera italiana. Ha celebrato la sua appartenenza alla grande famiglia internazionale dei nazionalisti-sovranisti, con la benedizione del capofamiglia. 

«Altro che governo isolato – ha potuto dire Salvini al termine della visita – Nella fragilità dell’Unione europea l’Italia è un punto di riferimento per gli Stati Uniti. Siamo il Paese a cui i dirigenti americani si sentono più vicini, siamo l’alternativa allo strapotere franco-tedesco, e io sono venuto a rinsaldare questa vicinanza valoriale». Salvini è accreditato di un nuovo ruolo come interlocutore favorito di questa Amministrazione USA che nei confronti dell’Unione europea ha una ostilità aperta. Sono numerosi i temi sui quali parlando con i dirigenti USA ha sconfessato il suo alleato di governo e il premier.

La firma del Memorandum con la Cina sulle Nuove vie della seta? «Condivido le preoccupazioni americane, bisogna controllare le ingerenze di un Paese autoritario nelle nostre infrastrutture strategiche». Sul Venezuela? «Fosse per me avremmo riconosciuto Guaidò. Non si può sostenere un dittatore criminale come Maduro». Sull’Iran? «Non possono dire di voler cancellare Israele dalla faccia della terra». Salvini ha usato la riforma fiscale di Trump come una clava contro le regole di bilancio europee: «In America hanno ridotto le tasse sulle imprese, come voglio fare io con la flat tax. Risultato: una disoccupazione scesa al 3,6%, un minimo storico. Ridurre le tasse è la volontà dei cittadini espressa nel voto».

«È quello che Bruxelles deve capire. Se Bruxelles insiste sui tagli è più difficile dire no alla Cina». Salvini si allinea su ogni piega della politica trumpiana verso l’Europa: condivide l’appoggio del presidente americano all’ultrà Boris Johnson che vuole un hard Brexit; fa sue le critiche di quest’Amministrazione repubblicana per la «latitanza dell’Europa in Africa». Evoca la possibilità che l’Italia imiti gli Stati Uniti nel tagliare contributi alle agenzie ONU. Sull’immigrazione ammira la linea trumpiana che punta a filtrare gli arrivi selezionandoli in base a qualifiche e talenti professionali. Lo zelo filo-trumpiano lo porta a una forzatura: minimizza la minaccia dei dazi. «L’Italia non è nel mirino, vogliono colpire Germania e Francia».

In realtà il Prosecco e altri vini italiani sono nella lista dei dazi incombenti, e la componentistica per auto made in Italy sarà danneggiata se perde colpi l’export tedesco. L’unico tema su cui Salvini mantiene una distanza dagli Stati Uniti, è la sua affinità con Vladimir Putin. Mentre Trump ha inasprito le sanzioni economiche contro la Russia, lui rimane contrario: «È meglio avvicinare la Russia a noi, che spingerla nelle braccia della Cina».

Chi si aspetti vantaggi concreti da questa affinità elettiva, non si faccia illusioni. Invece di fargli regali sui dazi, sono gli americani ad aver presentato il conto a Salvini: gli hanno chiesto garanzie sulla realizzazione del gasdotto Tap, quello che porterà metano dall’Azerbaijan, a cui Washington tiene per motivi strategici in quanto dovrebbe ridurre la dipendenza europea dal gas russo.

«America First» è uno slogan che non lascia spazio per concessioni agli alleati. Per di più è ormai iniziata la corsa alla Casa Bianca per il 2020 e questo presidente in cerca di rielezione sarà implacabile nel favorire le sue constituency: dai metalmeccanici di Detroit agli agricoltori dell’Iowa. De Gasperi tornò da quella prima missione americana con un credito di cento milioni di dollari (di allora). Salvini deve accontentarsi di un successo d’immagine.