Un crescente fastidio per la politica e i suoi riti, elettori sempre meno motivati, voto manipolato da oscuri centri di potere, esiti elettorali che non producono maggioranze stabili: che la democrazia rappresentativa sia in crisi è sotto gli occhi di tutti. Lo è in molti paesi occidentali e si manifesta con un’alzata di spalle o con una rabbiosa protesta, in chiaro con l’astensione dal voto o con il voto per le cosiddette forze anti-sistema. Un astensionismo di massa è ormai la norma in Italia, un paese che vantava in passato un’altissima partecipazione al voto.
Questa domenica gli italiani sono chiamati a rinnovare il parlamento: sullo sfondo di una campagna insieme nevrotica e stanca, fatta di slogan e di insulti, affollata di leader che parlano non già alla mente ma alla pancia dei cittadini seminando paure e promettendo la luna, e per giunta si sottraggono al confronto diretto, si profila un interrogativo: gli astenuti saranno più o meno di un terzo del totale? Il voto parlamentare precedente, nel 2013, sfiorò questa soglia: andarono a votare solo sette elettori su dieci. Il fenomeno è tanto più allarmante se si considera che riguarda soprattutto i giovani, i sondaggi segnalano che fra i cittadini alla prima esperienza elettorale meno della metà andranno effettivamente a votare.
Di fronte a questa realtà ecco una proposta radicale e davvero innovativa, ai limiti della provocazione, che arriva dal Belgio: e se invece di eleggere i rappresentanti li estraessimo a sorte? A formularla è David Van Reybrouck, singolare figura di intellettuale eclettico, che s’impegna in ugual misura nella storia, nell’archeologia e nello studio dei sistemi politici. Per salvare il sistema Van Reybrouck suggerisce il passaggio dalla democrazia del voto, che ormai mostra la corda, alla democrazia del sorteggio che apre nuove prospettive d’imparzialità. Secondo lo studioso belga abbiamo un’idea sbagliata della funzione e dei vantaggi delle elezioni come modalità di selezione della classe dirigente. Non solo: arriva a sostenere che limitando la democrazia alla prassi elettorale la stiamo semplicemente distruggendo. Eppure le libere elezioni a suffragio universale sono generalmente considerate la quintessenza della democrazia: non è affatto così secondo Van Reybrouck. E purtroppo l’attualità politica sembra dargli ragione.
È ormai da parecchi anni che si parla di crisi della democrazia rappresentativa, cioè precisamente del rapporto fra i cittadini e le istituzioni e in particolare di un rito elettorale che sempre più presenta i caratteri di una vuota liturgia: gente che non vota, gente che vota malvolentieri. Se ne parla da ben prima del 2014, quando Van Reybrouck diede alle stampe il suo saggio (pubblicato anche in versione italiana: Contro le elezioni – perché votare non è più democratico, ed. Feltrinelli). Introducendo così nel dibattito il concetto dell’estrazione a sorte come modo di comporre assemblee deliberative non più condizionate dai ben noti difetti rivelati dalle cronache. Già un decennio prima il politologo britannico Colin Crouch aveva teorizzato il principio della post-democrazia, rivelando che il formale involucro democratico contiene ormai ben altro che la volontà del popolo, come vorrebbero la tradizione e l’etimologia.
È stato un processo graduale e inarrestabile, che ha portato a una profonda involuzione del sistema. Venuto in pratica a mancare il controllo pubblico della classe dirigente, al posto del popolo, del demos che pure è solennemente indicato come titolare della sovranità, si sono fatti strada i nuovi attori della scena politica. Sono i cosiddetti poteri forti, le lobby, che attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione e soprattutto della rete sono in grado di pilotare il consenso, offrendosi così come spalla a una classe politica che proprio di consenso è perennemente in cerca. Ovviamente pretendono qualcosa in cambio, che non necessariamente coincide con l’interesse nazionale e con le promesse dei partiti. Per non parlare di quei centri di potere più o meno ambigui e misteriosi che cercano a loro volta d’intervenire nelle scelte elettorali con subdole manovre di disinformazione proiettate attraverso i social network. Di fronte a tante insidie, ciò che resta della democrazia non è che un guscio vuoto, fondamentalmente tutt’altro che democratico.
Rispetto all’analisi di Crouch, sconfortante ma purtroppo fondata sull’evidenza, Van Reybrouck tenta un passo avanti. Poiché il problema risiede nella prassi elettorale, perché non risolverlo alla radice eliminando proprio il vecchio rito del voto? Perché non fare come si fa con i giudici popolari nei sistemi giudiziari di molti paesi? Nessuno, che si sappia, ha mai contestato le giurie popolari in nome della correttezza democratica. Dunque si passi alla democrazia per sorteggio: i cittadini che se la sentono di fare politica dichiarino la loro disponibilità. Una volta accertato che si tratta di persone responsabili, in regola con la legge, vengano iscritti in una lista dalla quale, nei momenti definiti dalle normative, siano estratti a sorte i legislatori, o i consiglieri degli organi territoriali, insomma i componenti delle assemblee che oggi si eleggono col voto popolare.
Si ovvierebbe in questo modo a un altro visibile inconveniente dell’attuale sistema elettivo. Per funzionare davvero, la democrazia rappresentativa dovrebbe coinvolgere una massa di elettori ben preparati, capaci di orientarsi attraverso un ascolto consapevole delle campagne elettorali, e questo non è generalmente il caso. Viene a proposito l’osservazione di un grande intellettuale del Novecento, Giuseppe Prezzolini, che era un liberal-radicale con forti venature anarchiche. Infatti si rifiutava di votare. E motivava questa sua scelta con parole molto chiare: Prezzolini non se la sentiva proprio di accettare che il suo voto equivalesse a quello di persone del tutto digiune di cultura politica. Non gli andava di votare nemmeno «turandosi il naso», come diceva Indro Montanelli, perché trovava intollerabile che si tradisse il principio della conoscenza come base della scelta.
Quale evoluzione è dunque prevedibile? Nessuno vieta di contemplare un miraggio: sistemi educativi efficienti e capaci di formare cittadini consapevoli, una stampa responsabile e una rete non più territorio selvaggio in cui circolano menzogne e disinformazione. Tutto questo potrebbe regalare alla politica una generazione di elettori preparati e maturi, in grado di comprendere i candidati, di obbligarli a proporre argomentazioni e non luoghi comuni, di resistere ai tentativi di manipolazione da parte dei poteri post-democratici, di smascherare le trappole informative che intossicano la rete e vengono riprese e rilanciate dalla stampa. Forse non è altro che utopia, ma non si vede come, se non attraverso quell’utopia, potrebbe passare il riscatto della democrazia rappresentativa. Intanto, nell’attesa di tempi migliori, non si scorgono all’orizzonte scenari alternativi alla provocatoria proposta di David Van Reybrouck.