I giornali americani di carta e online, senza distinzione tra print e digital, continuano a licenziare giornalisti e dipendenti a ritmi che stupiscono anche in tempi di conclamata crisi dell’editoria. La causa primaria della crisi e dei licenziamenti nel sistema dell’informazione globale non è la congiuntura economica né la rivoluzione tecnologica, ma la posizione dominante dei social media. Facebook e Google, e le loro associate, prosciugano le risorse agli editori tradizionali perché distribuiscono gratuitamente i contenuti, forniti dagli stessi editori, e perché si accaparrano il novanta per cento degli investimenti pubblicitari digitali grazie agli algoritmi con cui monetizzano i dati sottratti agli utenti.
I media tradizionali non hanno scampo in questo scenario, perché a causa della gratuità e della voracità dei social vendono sempre di meno e vedono crollare i ricavi pubblicitari. Poco male, se si trattasse di un semplice settore industriale obsoleto che viene rimpiazzato da un altro al passo con i tempi. Ma senza informazione non c’è dibattito pubblico e senza dibattito pubblico non c’è democrazia.
La novità positiva degli ultimi tempi è che, perlomeno negli Stati Uniti, si è finalmente aperto un dibattito sul ruolo dei social media nella società contemporanea e sui pericoli che rappresentano per la democrazia. Questa nuova consapevolezza è certamente un effetto dell’onda lunga causata dall’ingerenza dei servizi russi, via social media, nelle elezioni americane del 2016. In attesa delle conclusioni delle inchieste penali sulle complicità del team Trump con il Cremlino, adesso commentatori e opinionisti, e perfino qualche politico di nuova generazione, cominciano a sostenere la tesi fino a poco tempo fa inaudita che se non si romperanno i monopoli delle grandi piattaforme digitali le conseguenze saranno enormi per tutti, perché prima salteranno gli organi di informazione, poi salterà il dibattito pubblico e infine toccherà alla democrazia. «Regolamentate subito i social media, il futuro della democrazia è a rischio», titolava la settimana scorsa il «Washington Post».
La soluzione, per quanto rivoluzionaria, è comunque a portata di mano, perché è scritta nella storia e nella tradizione delle società occidentali. Non è la prima volta, infatti, che i monopoli industriali, dal petrolio al tabacco, dalle ferrovie alle telecomunicazioni, dopo una fase iniziale di crescita tumultuosa grazie alle innovazioni tecnologiche e alla mancanza di regole, vengono in un secondo momento smantellati per favorire la concorrenza e una maggiore equità. È già successo, a cominciare dalla grande battaglia anti trust del presidente Theodore Roosevelt all’inizio del secolo scorso, che gli stati e i governi intervenissero a regolamentare settori nati e cresciuti in assenza di norme adeguate. Oggi, restando nel campo dei media, esistono in tutto il mondo occidentale leggi contro le concentrazioni e queste regole valgono sia per i giornali sia per le televisioni sia per le concessionarie pubblicitarie, ma non per le grandi piattaforme digitali, malgrado siano diventate il primo editore, il primo concessionario pubblicitario e nonostante riescano anche a eludere le imposte fiscali perché il loro business è considerato immateriale e non circoscrivibile in un territorio nazionale.
Oggi non sono i cittadini a fare le regole d’ingaggio, non sono i Parlamenti, non sono le istituzioni sovranazionali, ma sono gli stessi monopolisti a regolare se stessi. Decidono loro come catturare i dati degli utenti e come usarli, a chi mostrarli e se venderli a fini pubblicitari non solo commerciali ma anche politici. Decidono loro chi, come e quando censurare, e le loro scelte condizionano il dibattito pubblico senza che il pubblico ne sappia niente e tanto meno li abbia consapevolmente autorizzati. Eppure i dati personali sono nostri, non sono loro, e per questo dovranno tornare nella piena disponibilità dei titolari senza l’alibi di astruse e illeggibili note cui dare il consenso. Servono regole nuove, dunque, che spacchettino i monopoli e consentano di far rinascere la concorrenza. È ovvio che non potrà continuare in questo modo.
Lo sa anche Facebook, tanto da aver avviato l’accorpamento ingegneristico delle sue piattaforme, Facebook, Instagram e Whatsapp, in modo da rendere più complicato un eventuale intervento legislativo contro i monopoli che prima o poi arriverà. È altrettanto comprensibile, però, lo scetticismo di chi non crede alla disponibilità della Silicon Valley a cambiare le cose, cioè a rinunciare a una parte dei favolosi ricavi che, nel 2018, per Google sono stati di quasi 137 miliardi di dollari, per Amazon 233 miliardi, per Facebook quasi 56.
Ma i monopoli vanno spezzati ugualmente, con o senza il consenso delle piattaforme digitali. «Abbiamo regolamentato i mercati finanziari» ha scritto Anne Applebaum sul «Washington Post» «un altro settore dove la tecnologia cambia costantemente, la quantità di soldi in ballo è enorme, tutti fanno pressione e provano a barare. Ma se non lo facciamo, se nemmeno ci proviamo, non saremo in grado di assicurare l’integrità dei processi elettorali e la moralità della sfera pubblica. Se non lo facciamo, nel lungo periodo non ci sarà nemmeno più una sfera pubblica e non ci saranno più nemmeno democrazie funzionanti».