Le invasioni hanno segnato la storia della Russia. La Grande Armée di Napoleone contro l’esercito dello Zar Alessandro I. Un’epopea tragica dove le gesta degli uomini forse non furono decisive. Alla fine la ritirata di Russia segnò soprattutto la vittoria del Generale Inverno, il più temibile dei condottieri che difendono Mosca e San Pietroburgo dagli invasori stranieri. Anche la Wehrmacht tedesca agli ordini di Adolf Hitler fu sconfitta – oltre che dal sacrificio eroico di milioni di soldati russi – dall’indomabile Generale Inverno.
Il fiasco delle due ultime invasioni, francese e tedesca, contiene un insegnamento ambiguo. Da una parte, l’ultima parola spetta al Generale Inverno che infligge un castigo mortale a chi si addentra in Russia e ci rimane nella stagione sbagliata. D’altra parte, è relativamente facile percorrere le grandi pianure dell’Europa centrale, arrivare in un lampo da Parigi o da Berlino fino al cuore della Russia. Non ci sono delle vere barriere naturali – geografiche – come potrebbero essere delle alte catene montuose o dei mari, dei deserti, o dei fiumi difficili da traversare. La Russia è facile da invadere (occuparla è un altro discorso). Per questo ci cascarono Napoleone e Hitler. Per questo i russi – popolo e leader – si portano dentro un’insicurezza antica. Che ognuno cerca di curare come può.
Il paradosso della superpotenza fragile è illustrato in un saggio dello storico americano Stephen Kotkin, docente all’università di Stanford. S’intitola Russia’s Perpetual Geopolitics, pubblicato sulla rivista «Foreign Affairs». Descrive la sindrome dell’insicurezza alla quale generazioni di autocrati hanno dato sempre la stessa risposta: conquistare nuovi territori, espandersi ai danni dei paesi vicini, allontanare sempre di più da Mosca e San Pietroburgo i confini esterni. «Per mezzo millennio, a cominciare dal regno di Ivan il Terribile nel XVI secolo – scrive Kotkin – la Russia è riuscita a espandersi alla velocità media di 130 km quadrati al giorno per centinaia di anni, fino a occupare un sesto di tutta la superficie emersa del pianeta». Tra i momenti di massima ascesa e allargamento territoriale Kotkin elenca la vittoria dello Zar Pietro il Grande contro Carlo XII di Svezia che ricaccia indietro gli scandinavi e insedia i russi nel mar Baltico nel primo Settecento; la vittoria di Alessandro I su Napoleone che fa dello Zar uno dei protagonisti del Congresso di Vienna e quindi del nuovo equilibrio fra le potenze europee; la vittoria di Stalin contro Hitler quando l’Urss si allarga fino ai confini dell’Occidente, si annette di fatto la Mitteleuropa inclusa mezza Germania. Tra le fasi di ritirata (relativa): la sconfitta nella Guerra di Crimea del 1856 che porta a una prima crisi del regime zarista e all’emancipazione dei servi della gleba; l’umiliante disfatta nella guerra contro il Giappone del 1905, la prima volta che un impero «bianco» nell’èra moderna perde il confronto militare con un avversario asiatico; la sconfitta nella prima guerra mondiale che genera il tracollo della dinastia Romanov e la rivoluzione del 1917; la ritirata dall’Afghanistan che accelera la crisi dell’Unione sovietica; infine la sconfitta nella guerra fredda e la dissoluzione dell’intero blocco comunista.
La contraddizione di fondo è questa: anche nei momenti di massima espansione territoriale, militare e imperiale, la Russia è sempre stata un gigante coi piedi d’argilla, una superpotenza debole. Nel 1900, per esempio, il suo reddito pro capite era un quinto di quello inglese, la speranza di vita media per i suoi abitanti era di soli trent’anni contro 52 in Gran Bretagna, e solo un terzo dei russi sapevano leggere e scrivere.
Come ai tempi degli Zar e poi nell’interregno sovietico, il paradosso russo rimane quello di sempre: un territorio gigantesco, una notevole forza militare, ma un’economia povera e irrilevante. Il Pil russo è di poco superiore a quello della Spagna, è più basso dell’India o del Brasile. L’economia della Russia è una frazione (un quindicesimo) di quella americana. Inoltre Putin ha ereditato un territorio amputato rispetto ai picchi della massima espansione. La disintegrazione dell’Urss, facendo nascere tante repubbliche ex-sovietiche, ha sottratto a Mosca un territorio superiore all’intera Unione europea, oltre cinque milioni di km quadrati. Ecco la linea rossa che qui c’interessa, e soprattutto interessa Putin: segna il confine mobile della sfera d’influenza di Mosca, il cui spostamento ha seguito cicli di espansione e di ritirata. La linea rossa dell’èra sovietica che includeva Germania Est, Paesi Baltici, Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, più una serie di repubbliche dell’Asia centrale, oggi si è «pericolosamente» rattrappita avvicinandosi a Mosca. La linea rossa più recente non include neppure più l’intera Ucraina. Una parte di quei territori sono finiti dentro la Nato, alcuni dentro l’Unione europea, due alleanze che a torto o a ragione Putin considera come rivali e perfino ostili. Di fronte alla fragilità economica e sociale, Putin reagisce con la classica fuga in avanti. O ritorno all’indietro… Cioè cerca compensazioni nazionaliste, aggrappandosi allo status di superpotenza. Riallacciandosi così alla Russia di sempre, alle parabole degli Zar. Annessione della Crimea, invasione di alcune regioni dell’Ucraina, intervento militare in Siria: a queste operazioni bisogna aggiungere la clamorosa ingerenza nell’elezione presidenziale americana del 2016. Dalla quale Putin sembrava destinato a incassare un beneficio enorme. Ma l’idillio con Donald Trump è durato poco. Centomila soldati mobilitati dalla Russia per le manovre al confine della Nato in questa estate 2017 sono un brutale risveglio. Anche la visita del vicepresidente americano Mike Pence in Estonia, Georgia e Montenegro, è un condensato di cattive notizie sul fronte orientale. Pence rilancia il vecchio progetto di inclusione della Georgia nella Nato, aborrito da Putin che lo considera un gesto ostile, un nuovo passo nel tentativo di accerchiamento della Russia. L’ipotesi di allargare la Nato fino a Tbilisi si affacciò sotto la presidenza di George W. Bush poco prima della guerra del 2008 fra Russia e Georgia; ma senza un orizzonte temporale preciso. Ora, dopo l’invasione-annessione della Crimea e i combattimenti in Ucraina, il premier Giorgi Kvirikashvili denuncia «provocazioni quotidiane» da parte dei russi e sollecita l’adesione al Patto atlantico. L’attenzione che gli riserva Pence la dice lunga sulla fine della luna di miele Washington-Mosca. Anche Putin ha preso atto del revival di tensione e ci mette del suo: dall’espulsione di tre quarti del personale diplomatico Usa (755 su poco più di un migliaio) fino alle manovre militari ai confini del Baltico.
Non era questo lo scenario sul quale Putin puntava ancora un mese fa, al G20 di Amburgo, segnato da molteplici e cordialissimi incontri con Trump. Quel G20 sembrava sancire il successo di una scommessa inaudita, con la quale Putin aveva rilanciato la sua immagine globale, il suo prestigio personale, e il potere contrattuale della diplomazia russa. Bisogna ricordare il punto di partenza, un anno fa: i blitz degli hacker russi per carpire informazioni riservate al partito democratico americano, diffamare e danneggiare Hillary Clinton, favorire l’elezione di un candidato considerato come più congeniale agli interessi di Mosca. L’operazione fu condotta in maniera plateale e perfino sfacciata, denunciata dall’intelligence Usa e da Barack Obama. Sembrava impossibile che venisse coronata dal successo e lo stesso Trump fino alla notte dell’8 novembre credette assai poco nelle proprie chances di entrare alla Casa Bianca. Forse anche perché non immaginava se stesso presidente degli Stati Uniti, e quindi non calcolava le conseguenze, in campagna elettorale Trump «flirtò» con Putin, ostentando simpatia, stima, convergenza strategica.
Un test Putin lo aveva fatto con le ingerenze nella campagna referendaria inglese; ci ha riprovato in Francia a favore di Marine Le Pen ma con esito deludente. Il colpaccio americano era stato come vincere al Superlotto. Partendo da una condizione di debolezza, Putin aveva realizzato un capolavoro, si era rilanciato come un partner quasi di pari rango con l’America. E si era fatto accettare da Trump come un possibile salvatore nell’impasse della Siria, dove i due hanno concordato un parziale cessate-il-fuoco. Putin aveva fatto i conti senza la contro-reazione americana. Affidata al Congresso. L’indignazione di tanta opinione pubblica e dei media per l’idillio Trump-Putin su sfondo di ingerenze nel processo elettorale, ha finito per irrigidire anche il partito repubblicano. Che ha infilato una zeppa nel dialogo bilaterale: la nuova legge votata a larga maggioranza bipartisan lega le mani al presidente degli Stati Uniti sulle sanzioni, le inasprisce, fino a minacciare il settore energetico cioè l’unico che regge l’economia russa (nel mirino delle sanzioni c’è il gasdotto Nord Stream 2).
Pence conferma il ritorno nei binari della tradizione. Agevolato dal peso dei «tre generali» alla Casa Bianca: Kelly capogabinetto, Mattis alla Difesa, McMaster consigliere per la sicurezza nazionale. Il Pentagono ha formato generazioni di militari che credono nel primato americano; nessuno era felice di svenderlo sull’altare di una parità con Putin agguantata da quest’ultimo in maniera fortunosa. Gigante dai piedi d’argilla, l’Orso russo resta però una superpotenza militare in grado di spaventare l’Europa: vedi la sproporzione di forze tra le manovre congiunte della Nato nel Baltico che coinvolgono meno di tremila soldati, e quelle dell’Armata rossa che ne schiera 100’000 in Bielorussia.