Russia, sanzioni e rivolta di palazzo

Gli oppositori di Putin restano in piazza e strizzano l'occhio agli scontenti nell’élite putiniana
/ 08.02.2021
di Anna Zafesova

Con la condanna di Alexei Navalny a 3 anni e mezzo di carcere per un’accusa palesemente pretestuosa, e la conseguente violentissima repressione poliziesca delle proteste nel centro di Mosca e San Pietroburgo, il Cremlino ha varcato la linea che separava la «democrazia sovrana» di Vladimir Putin dalla «lista nera» delle dittature. Lo si è visto anche dalle reazioni internazionali, immediate e brusche, alla condanna. Washington e Bruxelles, Londra e Parigi, Berlino e Stoccolma, tutti i Governi occidentali hanno chiesto la «liberazione immediata e incondizionata» del leader dell’opposizione russa e delle migliaia di arrestati negli ultimi giorni, definiti dal neosegretario di Stato Usa Anthony Blinken «detenuti politici». La diplomazia internazionale mette da parte, dunque, formule prudenti come «auspicio» e «profonda preoccupazione», in una condanna unanime di un sistema che viene ormai considerato incapace «di rispettare gli impegni più elementari che ci si aspetta da qualsiasi Paese responsabile della comunità internazionale», come recita un comunicato del Foreign office britannico.

La Russia torna ad assomigliare all’Unione sovietica anche nell’ostilità ormai dichiarata verso l’Occidente, con il ministero degli Esteri russo che inquadra le targhe diplomatiche dei rappresentanti delle ambasciate europee venuti al processo e accusa di «ingerenza» i Governi che hanno condannato le repressioni dei dissidenti. La visita dell’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, a Mosca ha inaugurato quello che probabilmente sarà d’ora in poi l’approccio internazionale verso il Cremlino. Ogni interazione inizierà dalla richiesta di liberare i detenuti politici, come all’epoca sovietica per Andrei Sakharov.

L’Europa sta discutendo un nuovo pacchetto di sanzioni verso la Russia e anche Blinken ha promesso un dibattito con gli alleati per quella che potrebbe diventare una sorta di «Lista Navalny», un elenco di funzionari e oligarchi russi su cui esercitare pressioni nella speranza che a loro volta facciano pressioni su Putin per un’inversione di rotta. Tra i più probabili bersagli delle sanzioni c’è anche il gasdotto North Stream 2 che porta il metano dalla Russia alla Germania (però Berlino non ci sente). Ma l’esempio della Bielorussia – dove il dittatore Alexandr Lukashenko, già colpito da un quarto pacchetto di sanzioni europee, si è visto togliere l’organizzazione dei mondiali di hockey, ai quali sarebbe sicuramente venuto anche Putin – mostra che si possono trovare tanti altri modi per far pagare al Cremlino la sua condotta.

Lo stesso Navalny ha invocato da dietro le sbarre sanzioni più vaste non soltanto alla cerchia più ristretta di Putin, ma a diversi oligarchi e funzionari russi, che legano i loro interessi, patrimoni e divertimenti all’Occidente. L’élite putiniana si proclama ultranazionalista, ma normalmente – non solo i magnati e i capi della propaganda, ma anche funzionari di provincia come sindaci e governatori – possiede conti in Svizzera, ville sul lago di Como e in Costa Azzurra, appartamenti a Miami e New York, manda i figli a studiare in Inghilterra, mogli e amanti a fare shopping a Londra. Sicuramente non desidera perdere i benefici di cui gode quindi non vede di buon occhio un ulteriore isolamento della Russia. Da qui una certa insofferenza.

Esempi di primi screzi si sono visti anche durante il processo a Navalny: la giudice che doveva condannarlo è stata sostituita all’ultimo momento e il presidente del tribunale mandato in pensione. Segnali di un probabile rifiuto da parte di certi membri dell’élite al potere di partecipare al nuovo giro di vite, dove la paura di sanzioni e di un prezzo pesante da pagare una volta caduto il sistema Putin sono una componente importante. Quella di una «rivolta di palazzo», una sorta di «perestroika» imposta da un pezzo di classe dirigente che non ha nessuna intenzione di farsi travolgere dal declino del putinismo, è infatti una delle carte che l’opposizione russa vuole giocare, insieme al programma di mantenere e possibilmente ampliare le manifestazioni di scontento, nei limiti entro cui le autorità russe le permetteranno.

Attualmente gran parte del vertice dell’organizzazione di Navalny è in carcere o agli arresti domiciliari, in attesa di venire processato per «organizzazione di manifestazioni illegali» e «violazione delle norme anti-epidemiche», imputazioni penali con condanne a reclusione reali. La macchina repressiva però si scontra con manifestazioni di solidarietà diffuse, che vanno dagli appelli sui social al crowdfunding per gli oppositori e gli arrestati, a piccoli gesti ribelli come i clacson suonati dai conducenti nel centro di Mosca durante i cortei.

Intanto al primo posto dell’agenda del Cremlino si pone il mantenimento del controllo sullo scontento e, in assenza di risorse economiche da investire, la scommessa viene fatta sulla repressione poliziesca, in una svolta probabilmente definitiva verso l’ala più dura del Governo, a danno dei tecnocrati più moderati e pragmatici che si occupano dell’economia. Squilibrio che il partito di Putin rischierà di pagare già al prossimo grande appuntamento elettorale: il voto di settembre per la Duma.