Alexei Navalny ha ripreso a mangiare, dopo più di tre settimane di sciopero della fame nel carcere di Pokrov. Prigione che ha messo a rischio la sua salute, secondo i suoi medici. Decine di migliaia di persone in tutta la Russia sono scese in piazza, sfidando il divieto del Governo, per sostenere la richiesta del leader dell’opposizione di essere curato da specialisti e protestare contro la repressione sempre più pesante di dissidenti e giornalisti indipendenti. Mosca ha accettato di far visitare Navalny e contemporaneamente ha ceduto anche sul fronte internazionale, annunciando il ritiro delle truppe dal confine ucraino. Un sollievo per Kiev, Bruxelles e Washington che cominciavano a temere un’escalation militare nel Donbass.
Intanto l’Amministrazione di Joe Biden ha annunciato nuove sanzioni contro Mosca, mentre da diverse capitali europee sono stati espulsi diplomatici russi, dopo una serie di scandali riguardanti spie russe infiltrate. Nel braccio di ferro con Navalny e il resto del mondo, Vladimir Putin sembra aver accettato di chiudere «zero a uno». Dopo nemmeno due mesi dalla sua reclusione nel carcere dove dovrebbe scontare una condanna a 2 anni e mezzo, l’avversario più celebre del Cremlino non solo è riuscito a rimanere al centro del dibattito politico e dei notiziari, ma ha costretto il presidente russo a piegarsi alle sue pressioni.
Navalny era pronto a spingersi molto lontano, sostenuto anche da una campagna di solidarietà internazionale che non si era vista dai tempi di Andrei Sakharov (fisico sovietico nato nel 1921 e attivista per i diritti umani perseguitato dal regime perché considerato un pericolo per la stabilità dell’Urss). Più di un centinaio di star del cinema – come Pedro Almodóvar, Benedict Cumberbatch, Jude Law – e scrittori del calibro di Orhan Pamuk e Joanne Rowling hanno chiesto a Putin di autorizzare le cure mediche in prigione, sostenute da un coro di capi di Stato e di Governo occidentali. Un’attenzione mediatica che rendeva difficile anche reprimere le manifestazioni che i collaboratori di Navalny avevano convocato in decine di città, nonostante il divieto, e dimenticare le migliaia di attivisti arrestati, picchiati e licenziati dopo i cortei del gennaio scorso.
I seguaci di Navalny non sono riusciti a raggiungere le 500 mila adesioni promesse ma la mobilitazione è stata comunque massiccia, con la visibile eccezione di San Pietroburgo, la città del presidente. Stavolta gli attivisti hanno potuto sfilare relativamente indisturbati, soprattutto a Mosca, dove il centro è stato invaso da persone che hanno urlato «Putin ladro!» e «Abbasso lo zar!» sotto le finestre del Cremlino. La polizia sembrava guardare altrove e anche questo è un segnale da interpretare: sono stati gli stessi agenti a rifiutare l’uso della violenza? Oppure sono stati sindaci e governatori, tra cui il potentissimo primo cittadino di Mosca Sergei Sobyanin, a decidere di non inimicarsi la popolazione?
Se resta poco chiaro il ruolo che possono aver avuto le componenti meno aggressive del regime, i «falchi» sembrano aver subito per ora un arretramento. Alla vigilia del discorso annuale del presidente alle Camere riunite, giravano voci sull’annuncio di un’offensiva contro l’Ucraina o di un’unificazione con la Bielorussia di Aleksandr Lukashenko. Nelle settimane precedenti i capi della propaganda russa erano andati nel Donbass a ridare fiato a una campagna di separatismo a danno di Kiev e a favore di Mosca, mentre c’è chi sosteneva che, con un’annessione di fatto della Bielorussia, il Cremlino avrebbe cercato di resuscitare il proprio elettorato nostalgico e revanscista.
Ma il miracolo della Crimea del 2014 appare difficile da replicare dopo sette anni di impoverimento, sanzioni e isolamento. La fazione pragmatica ha prevalso: il discorso presidenziale è stato tra i più blandi dell’ultimo decennio, con soltanto qualche frase minacciosa di rito indirizzata a non meglio precisati «provocatori» e «ingerenze». Il Cremlino si rende dunque conto di avere spazi e potenziale di manovra sempre più ristretti, come la comunità internazionale ha mostrato anche nel mobilitarsi a fianco dell’Ucraina. Il presidente Volodymyr Zelensky, forte dell’appoggio dichiarato di Joe Biden, ha rilanciato invitando Putin a negoziare direttamente nel Donbass ucraino, offerta che la Russia ha respinto.
Per la diplomazia russa è complicato anche giocare sulle divisioni tra i diversi Paesi europei. Lo scandalo nella Repubblica ceca, che ha espulso mezza ambasciata russa come ritorsione per l’esplosione di un deposito di armi per mano di 007 russi, ha allontanato anche governi non ostili a Mosca. E se i giochi di guerra al confine ucraino erano stati per Putin un modo di mostrare all’Occidente le linee rosse, la promessa di nuove sanzioni fatta da Washington a sua volta avverte Mosca di non sconfinare.
Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov profetizza un periodo che sarà «peggio della guerra fredda», un’ostilità che va ben oltre il verbale – Praga ha definito l’esplosione del deposito, nel quale erano morte due persone un «atto terroristico» – e mantiene il dialogo appena sopra la soglia dello zero. Sul fronte interno invece l’impressione è che il Cremlino si prepari a un nuovo giro di vite: alle manifestazioni è seguita una nuova retata di arresti e la magistratura ha di fatto messo fuori legge la Fondazione anticorruzione di Navalny e le sue cellule nelle regioni. In altre parole, l’intera rete dell’opposizione è ora clandestina, vietata per «estremismo», nella stessa lista con Isis, Al Qaeda e i talebani. Un passo senza precedenti verso la dittatura repressiva che potrebbe riportare la partita tra Putin e la protesta a un pareggio, «uno a uno», in attesa del prossimo scontro.
Russia, la calma prima della tempesta?
Vladimir Putin sembra avere accettato di chiudere «zero a uno» il braccio di ferro con l’oppositore Alexei Navalny e il resto del mondo. Ma l’impressione è che si stia preparando a un nuovo giro di vite
/ 03.05.2021
di Anna Zafesova
di Anna Zafesova