Mobilitazione parziale con richiamo di 300mila riservisti per combattere sul fronte ucraino. Referendum nelle zone invase per sancirne l’annessione alla Russia. Minaccia nucleare rivolta all’Occidente. Vladimir Putin non retrocede, non si prepara vie d’uscita dall’impasse in cui si è cacciato da solo. I successi della controffensiva militare ucraina lo costringono a fare ciò che aveva evitato finora: coinvolgere strati sempre più ampi della popolazione russa, che fin qui poteva sentire la «operazione militare speciale» in Ucraina come un conflitto limitato e distante. C’è chi analizza queste ultime mosse di Putin come dettate dalla disperazione, e non c’è dubbio che il leader russo stia creando le condizioni per una catastrofe che ricadrà soprattutto (ma non soltanto) sul suo Paese. Ma dall’inizio di questo conflitto c’è stata una tendenza in Occidente a sovrastimare le difficoltà di Putin, a esagerare il suo isolamento, o a sottovalutare le sue capacità di tenuta. Un esempio di questi errori di analisi occidentali riguarda i rapporti fra Russia e Cina. È bastato qualche segnale di malumore cinese, trapelato dal vertice del 15 e 16 settembre a Samarcanda, perché molti osservatori occidentali abbiano descritto un Putin sfiduciato da Xi Jinping, e sotto pressione da parte dell’alleato cinese per concludere la guerra. Ma ogni analisi dei rapporti bilaterali fra Pechino e Mosca deve partire dai dati fondamentali. Da gennaio ad agosto la Cina ha importato 73 miliardi di euro dalla Russia, soprattutto energie fossili, con un aumento del 50% rispetto allo stesso periodo nel 2021. In aumento anche le esportazioni cinesi verso Mosca, del 9,4%. Le relazioni economiche fra i due partner sono floride e si irrobustiscono a vista d’occhio da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina.
Il vertice di Samarcanda non passerà alla storia per un divorzio tra Xi e Putin. Almeno finché si tratta di fare fronte unito contro l’Occidente, l’alleanza tra Cina e Russia regge. Nei loro rapporti però l’equilibrio cambia e i segnali di tensione aumentano. Xi ha costretto Putin a fare da suo portavoce nel rivelare che esistono «preoccupazioni cinesi» su quella guerra. Pechino estorce forniture energetiche a buon mercato da Mosca («i cinesi sono dei negoziatori duri», ammette Putin) ma questi vantaggi economici non compensano tutti i danni di una congiuntura mondiale che penalizza la Repubblica popolare. Finora Xi avrebbe negato forniture belliche all’armata russa in Ucraina, onde evitare che le grandi aziende cinesi possano finire nel mirino delle sanzioni occidentali.
L’ultima volta che i due si incontrarono, il 4 febbraio ai Giochi invernali di Pechino, Putin deve avere fornito una versione trionfalistica della propria forza militare e delle proprie capacità di rivincita sul teatro europeo. Gli ultimi mesi hanno svalutato le sue quotazioni. Però c’è un collante ideologico che resiste fra i due leader e le ideologie possono essere almeno altrettanto potenti degli interessi materiali. Xi mantiene la narrazione per cui la guerra in Ucraina è colpa della Nato; vede un ordine internazionale da abbattere in quanto dominato dall’America; considera l’Occidente come una civiltà in declino irreversibile. Proclamando questa visione, Xi ha avvelenato il suo rapporto con gli Stati Uniti ma anche con l’Unione europea: le ultime sanzioni di Bruxelles sugli abusi contro i diritti umani sono un ulteriore segnale. Il gelo con l’Occidente è uno dei tanti venti contrari che Xi deve affrontare, insieme con un’economia in difficoltà e gli alti costi della sua cocciuta rigidità sul Covid.
Il presidente cinese è convinto che la sua ostilità verso l’Occidente non avrà ripercussioni gravi perché noi siamo incapaci di liberarci dalla nostra dipendenza nei confronti del «made in China». Per adesso questa sua certezza riceve un parziale supporto dai dati. C’è una fuoriuscita di capitali occidentali dalla Cina, però le ri-localizzazioni di attività produttive sono ancora modeste e premiano solo in piccola parte i Paesi occidentali. Apple sposta alcune produzioni, per ora assai poche, dalla Cina verso il Vietnam. Nei semiconduttori è iniziata una reindustrializzazione dell’America, finanziata da generosi sussidi pubblici. Il 2022 si chiuderà con un ritorno negli Stati Uniti di 350mila posti di lavoro dall’estero, una frazione ancora minuscola rispetto ai milioni di posti che erano stati delocalizzati in Cina in un trentennio di globalizzazione. Xi ne trae conferma che non possiamo fare a meno di lui, qualunque affronto lui ci infligga. La sua scommessa geopolitica include diversi scenari. La vittoria di Putin in Ucraina era il più favorevole per accelerare il ridimensionamento dell’Occidente. Una parziale sconfitta di Putin avrà comunque «distratto» verso l’Europa risorse militari e attenzione strategica degli Stati Uniti; inoltre una Russia impoverita si vedrà condannata al ruolo di colonia cinese.
Pechino spera di giocarsela bene verso il mondo dei non allineati. La Shanghai Cooperation Organization – quella che ha organizzato il summit di Samarcanda – è un’accozzaglia disomogenea: ne fanno parte anche India e Pakistan che sono fieri avversari fra loro; e New Delhi ha un’accesa rivalità con la Cina. Però un indebolimento dell’influenza russa in Asia centrale accelera la penetrazione cinese, grazie a quegli investimenti in infrastrutture (Belt and Road o Nuove vie della seta) che l’Occidente non tenta neppure di contrastare con una sua proposta alternativa. Un’analisi lucida della Shanghai Cooperation Organization ha molto da insegnarci. Da un lato esiste un vasto mondo, perfino maggioritario, che ha deciso di non aderire alle nostre sanzioni contro Mosca. D’altro lato dentro le mappe dei «non allineati» ci sono diversi Paesi che hanno comunque condannato l’aggressione contro lo Stato sovrano dell’Ucraina. Ci sono zone del mondo in bilico, dove l’influenza di Cina e Russia possono essere contrastate, se lo vogliamo e se mettiamo in campo i mezzi per farlo.
La tragedia ucraina dovrebbe guarirci dall’ingenuità sull’onnipotenza e l’infallibilità degli autocrati. Sbagliano anche loro, almeno quanto i governanti delle democrazie. Con l’aggravante che i sistemi politici illiberali non hanno meccanismi interni di bilanciamento, segnalazione e correzione degli errori. Fa impressione quanto scrive sulla rivista «Foreign Affairs» una ex docente della scuola di formazione dei dirigenti comunisti cinesi, Cai Xia, che oggi vive in esilio negli Stati Uniti. La professoressa che formò i quadri comunisti descrive Xi come un leader fallito, che accumula scelte sbagliate e al tempo stesso non è costretto a riconoscere i suoi errori perché ha eliminato tutti i rivali interni usando metodi da boss mafioso. Riguardo alla scommessa di Putin e Xi sul declino irreversibile dell’Occidente, un test importante si avvicina a grandi passi. L’inverno sarà cruciale per capire se abbiamo la tempra per resistere al ricatto energetico. Negli anni Settanta le economie europee – molto meno ricche di quelle attuali – uscirono dai primi shock energetici ammaccate, ma senza danni irreparabili. Oggi come allora, un mix di misure di risparmio, diversificazione delle fonti, innovazione tecnologica e transizione verso nuovi modelli energetici, dovrebbe dare risultati analoghi. Passato il giro di boa dell’inverno, il 2023 potrà offrire il panorama di un’Europa avviata verso la «disintossicazione» rispetto alla dipendenza da gas e petrolio russo. Un Putin indebolito sarà costretto a pagare un prezzo sempre più elevato per l’appoggio condizionale del suo amico Xi. Ma il leader ha deciso che la guerra continua, addirittura con un’escalation. Non si sente abbandonato dai suoi amici e protettori cinesi.