Stati Uniti e Germania sono in rotta di collisione. I media si sono molto esercitati in questi mesi sullo scontro a puntate – la più recente al G7 di Taormina – fra Donald Trump e Angela Merkel, personalità che più diverse non si possono immaginare. Al di là dell’incompatibilità di carattere fra i due leader, quel che conta è la sostanza geopolitica e geoeconomica dello scontro. La quale consiste nel precetto americano per cui non è tollerabile che emerga in Europa un polo di potenza concorrenziale, o addirittura nemico. E parallelamente nella graduale ma evidente ricerca tedesca di un peso geopolitico proprio, che affranchi definitivamente la Bundes- republik dal «passato che non passa» e ne faccia un paese maturo, «normale».
Questa contrapposizione ha una lunga storia, che comincia almeno nel 1917, quando gli Stati Uniti sbarcano per la prima volta in Europa per sconfiggervi il Reich guglielmino. Operazione ripetuta nel 1944 con il D-Day in Normandia e completata con la liquidazione del Terzo Reich e l’occupazione della Germania occidentale. Nel 1990 il presidente Bush, per la somma irritazione di Thatcher e Mitterrand, decide di appoggiare la riunificazione tedesca. Ma non per simpatia, quanto per razionale scelta geopolitica: gli Stati Uniti sono consapevoli che il cammino avviato da Kohl dopo il crollo del Muro è inarrestabile, perché l’Unione Sovietica ha cessato di esistere come impero (dal Natale 1991 come Stato). Dunque meglio intestarsi la Wiedervereinigung per vincolare a sé la Germania di Berlino e tenerne sotto controllo eventuali sogni di potenza.
Oggi che alla Casa Bianca si è installato un nazionalista/protezionista che vede nella Germania un pericoloso, malevolo e disonesto competitore commerciale, che si rifiuta di pagare la sua «giusta quota» di contributi all’Alleanza Atlantica, fruendo a sbafo della protezione a stelle e strisce, il clima di sfiducia reciproca si è appesantito. Fino ad indurre la cancelliera a sostenere, non solo per raccogliere voti in vista delle elezioni di settembre, che d’ora in avanti Berlino dovrà prendere in mano il proprio destino.
Sono di fronte una grande potenza economica, quella con il massimo avanzo commerciale al mondo, e la superpotenza a tutto tondo, sia pure declinante, che è anche il Paese più indebitato del pianeta. Già sotto il profilo economico non si potrebbero immaginare due posture più differenti e difficilmente compatibili. Forse non arriveremo ai dazi minacciati da Trump, ma certamente qualche tipo di rappresaglia americana nei confronti dell’industria tedesca è da considerare probabile.
Difficilmente queste pressioni potranno impedire alla Germania di proseguire il suo percorso di emancipazione dal grande fratello a stelle e strisce. Il superamento della linea d’ombra avviene in particolare su due fronti: quello monetario e quello militare. Entrambi votati a costruire di fatto un’Europa tedesca (Geuropa), inevitabilmente molto più autonoma da Washington e più disponibile alle intese con Mosca e forse anche con Pechino, come si conviene a una potenza centrale nel Vecchio Continente.
In campo monetario, Berlino cercherà di rafforzare l’Eurozona, anche concedendo qualcosa ai «latini», Francia in testa – ma solo dopo le elezioni, quando forse al ministero delle Finanze non ci sarà più il «cerbero» Schäuble. Nel caso questa integrazione dell’area monetaria non funzionasse su scala troppo larga, magari per il cedimento dell’Italia, il Piano B consiste nel Neuro, ovvero una Kerneuropa monetaria fondata sulla Germania ed estesa ai paesi pertinenti alla sua catena del valore industriale, più la Francia per obbligo (?) geopolitico.
Sotto il profilo militare, avanza il progetto dell’Ankerarmee (esercito àncora). La Bundeswehr dev’essere rimessa in linea di galleggiamento e diventare il perno di un sistema strategico integrato fra Germania, Olanda e altri eurosoci minori. Insomma, la faccia militare del Neuro.
Nessuno a Washington, tantomeno Trump, può tollerare una scalata tedesca, sia pure graduale e mascherata, alla potenza. Il duello è quindi destinato ad inasprirsi. Soprattutto, rischia di infragilire il fronte atlantico, impegnato nel confronto con la Russia in seguito alla guerra ucraina. Gli Stati Uniti puntano sugli alleati dell’Est e del Nord, in particolare su polacchi e romeni, come punte avanzate dell’accresciuta deterrenza contro il percepito espansionismo russo. Germania e Italia, sia pure con accenti e peso diversi, si collocano su una posizione più cauta, mentre la Francia ha in corso una revisione del suo assetto strategico in conseguenza dell’avvento di Macron all’Eliseo e la Gran Bretagna è alle prese con la Brexit. Tutto congiura quindi a indebolire la solidarietà atlantica e il peso degli Stati Uniti in Europa. Sicché il «faremo da soli» di Merkel è meno velleitario di quanto possa apparire.
Certo la Germania non vuole né può affrontare lo scontro aperto con gli Stati Uniti, che sono in grado di infliggerle dei colpi molto seri, in caso di necessità. Qualche segnale è già stato dato, persino sotto Obama, tra Dieselgate e spionaggio del cellulare della cancelliera. Di sicuro una resa dei conti in ambito euroatlantico è in vista. E in questo vasto campo di battaglia la contesa Stati Uniti-Germania occupa il posto centrale.